Resto@ttivo #diaridalmondo – Rebecca: sono andata in soffitta, ho preso la valigia e l’ho aperta. Finalmente!
Per i diari di resto@ttivo nel mondo condividiamo la testimonianza di Rebecca che, dopo un lungo periodo di attesa a causa della pandemia, è riuscita a partire per la Palestina, dove svolgerà il suo periodo di servizio civile, accompagnando gli operatori del VIS nelle loro attività nel territorio.
“ -Ho comprato una valigia, ho una valigia in soffitta, aspetterò il tempo di riaprirla ancora.- Così scrivevo a marzo e di mesi ne son passati, otto per la precisione, rispondendo spesso “come in una montagna russa” alla domanda “come stai?”. La parte più difficile è stata vedere il mondo piano piano tornare a muoversi, a nuove velocità e con nuove abitudini e vedere il mio restare lontano indeciso oltre una barriera di mancate risposte, dubbi e scelte.
La vita in un piccolo paese è tranquilla ma non sedentaria e in questi mesi ho fatto di tutto un po’: lavoretti che prevedevano di avere le mani nella terra e fra i germogli di quelli che questa primavera saranno bellissimi fiori, sono tornata dietro il bancone di un’enoteca e a passare qualche pomeriggio con Lucio dagli occhi chiari e con un sorriso di chi sa con che macchinina vuole giocare; non son mancati i corsi di formazione online per non restare ferma, per mantenere chiaro e fisso l’obiettivo.
Ho risposto miriadi di volte alla domanda “ma quindi adesso sei qui?” e “eh sì, sai per ora, bloccata, ma dovrei partire…” a seguire le reazioni più disparate: incoraggianti e speranzose, disfattiste e rassegnate, esattamente come la mia voce nel rispondere. E insomma si sa, in un piccolo paese ci si conosce tutti e tutti hanno qualcosa da dirti!! Mi domando perché le cose e i momenti sembrano avere un peso specifico solo quando rivolgiamo lo sguardo indietro. Quello delle colline e delle dolci montagne, dell’affetto di chi mi vuole bene e in questi ultimi anni mi ha visto poco; quello dei colori e dei sapori di casa: quelli vividi dell’estate e quelli avvolgenti dell’autunno. Sono stata bene.
A marzo scrivevo anche che, grazie al lavoro del VIS, potevamo viverci l’attesa sapendo che il nostro futuro fosse in ottime mani. E così è stato. Mani determinate che hanno continuato a lavorare per e con noi e alla fine è arrivata di nuovo quella chiamata: “si parte”! Certo, ammetto che l’entusiasmo era ben nascosto e molto incredulo e, fino alla fine, fino all’ultimo ok non si è lasciato andare. Così sono andata in soffitta, ho preso la valigia e l’ho aperta. Finalmente. La sera prima della partenza – come mio solito – e vorrei dire che dentro ci ho messo solo l’essenziale, lasciando spazio per quello che verrà… ma no. Valigie pesanti ma fra un maglioncino – sì i miei adorati maglioni, in Palestina fa freddo, abituata al caldo del Senegal anche questa è una novità - e un paio di jeans ho ripensato ai giorni della formazione dove ci hanno invitato a riflettere su ciò che volevamo mettere in valigia – che non avrebbe aggiunto kg in più – e cosa avremmo voluto lasciare. Io non ricordo con precisione cosa risposi ma so che oggi, questa, è una partenza ancora più consapevole, se possibile, ancora più voluta e che non manca di quella dose di paura e coraggio che proviamo quando andiamo verso il nuovo.
Partenza: e così passaporto alla mano, due biglietti infilati dentro, un sorriso e gli occhi umidi per ciò che troverai e ciò che lasci. Una volta qualcuno ha definito gli aeroporti e le stazioni dei non luoghi - come l’ho trovata vera questa definizione – luoghi dove aspetti o transiti – più o meno velocemente – verso qualcosa che deve ancora compiersi, prendere forma, divenire. Oggi, gli aeroporti hanno un altro sapore, più amaro, meno trepidante. Oggi per viaggiare non bastano solo documenti e il cuore aperto oggi servono almeno quattro o cinque fogli ad attestare che puoi farlo. Gigi, il capo missione del VIS in Palestina, me li ha forniti tutti, mi ha indicato passo passo il percorso di questo viaggio un po’ più complicato del solito e mi ha fatto sentire tranquilla nell’affrontarlo. Arrivo: sopra Tel Aviv l’aereo ha ballato un po’ facendomi tremare le gambe. Atterrati: attese, controlli, bagagli, taxi, tutto è filato liscio come quando metti la crocetta a una voce della tua lista e guardando soddisfatta dici: fatto. Ha piovuto la notte del mio arrivo, non me ne sono accorta, durante il viaggio in auto verso Cremisan cercavo di cogliere qualche indizio dal paesaggio ma mi sono accorta che le uscite dagli aeroporti si assomigliano tutte, che le strade si differenziano solo per le lingue dei suoi cartelli, qui: inglese, arabo ed ebraico. Gigi ci ha aperto il cancello, ci siamo guardati, con una gioia che trapelava anche dai filtri della mia doppia mascherina FPP2 e chirurgica a dirci “Non ci credo che sei/sono qui” e un sonoro “Finalmente”.
Quattrodici giorni di quarantena preventiva dal mio arrivo – come dicevamo tempi complicati per chi viaggia – e la mattina con la luce di un bel sole mediorientale ho scoperto la bellezza di questo posto. Gigi mi ha raccontato la storia del Monastero dei Salesiani di Cremisan e della sua terra. Fortunata questa quarantena prevede mura fatte di alberi, vigne e ulivi; verdure olio e vino prodotto proprio qui; Gigi e i confratelli salesiani gentilissimi che si premurano che non mi manchi nulla. Ho passato i primi giorni in preda ad un entusiasmo fortemente motivato da ciò che vedevo alzando lo sguardo un misto di gioia incredula e concreta dell’essere qui, sentendola forte fra il petto e lo stomaco – lì dove le mie sensazioni più profonde risiedono. Le giornate sono passate piacevolmente e la mia quarantena sta già volgendo al termine. Non so se è abitudine ad un tempo dilatato e confinato ma non mi sono mai annoiata, giorno dopo giorno curiosando fra le stradine più nascoste del parco e fra i lineamenti dei volti e i suoni delle voci che incrociavo in lontananza ho cercato di scoprire un pezzo in più di questa terra. Senza impazienza, assaporandomi le giornate. Una piccola finestra di tempo non più sospeso ma vivo, fresco come l’aria che si respira qui. Una piccola bolla di decompressione fra l’arrivo e l’inizio dove in un tempo tutto tuo, simile a quel non luogo che prima era l’aeroporto, il divenire inizia a prendere forma. Nell’assurdità si può trovare una bellezza rustica, graffiante e inaspettatamente dolce. Se sono pronta a scoppiarla questa bolla? Sinceramente come per le partenze non lo si è mai, semplicemente lo si vive. “