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giulia tarantola

"Inestinguibile": il diario di Giulia dall'Albania

Pubblichiamo il diario di Giulia Tarantola, stagista del VIS in Albania:

Quando mi è stato proposto di scrivere un articolo sulla mia esperienza in Albania, mi sono resa conto di quanto sia difficile per me riportarla in parole. Da un lato sicuramente è colpa della timidezza, raccontare con la propria voce personale a volte ti fa sentire vulnerabile, e dall’altro incombe il timore della limitatezza delle parole. Ma le parole sono utili perché ti cambiano, ti trasformano e ti mettono in crisi, proprio come l’Albania fa con me tutti i giorni. Spero che questo mio breve racconto possa essere di stimolo per altri nel capire le risorse, i lati affascinanti, ma anche i paradossi, di questo Paese che per la terza volta mi ospita.

 

La mia storia con l’Albania è iniziata otto anni fa. Partii con il VIS per un tirocinio curricolare durante la laurea triennale e mi ritrovai a Tamara, un paese del Kelmend nel nord dell’Albania. Quei primi quattro mesi in questa terra, a me straniera all’epoca, furono un momento critico-decisivo-di transizione per me. Ero arrivata in un Paese nuovo che piano piano stava crescendo dentro di me. Un Paese dove ogni cosa era amplificata e in qualche modo più trasparente, nel bene e nel male. Un Paese pieno di persone giovani combattute tra la voglia di cambiamento del sistema e la possibilità di lavorare per poterne diventare parte. Avevo sempre sentito parlare di cooperazione internazionale in famiglia ma non ne avevo mai fatto parte. Anche se il tirocinio e molte attività erano legate ai miei studi, Produzioni Animali, ebbi l’opportunità di incrociare per la prima volta questo mondo fino ad allora parallelo. E mi piacque molto (i miei famigliari direbbero anche troppo visto i seguiti). Sicuramente è banale dire che il motivo principale che mi ha portata ad avvicinarmi a questo settore, ma soprattutto al Paese, furono le persone che incontrai durante questa prima esperienza. In primis Pierpaolo ed Anna, non due persone, ma due cuori di iridio che camminano. E tutte le altre ragazze e ragazzi che lavoravano al VIS in quel momento, persone energiche con gli occhi brillanti di voglia di cambiamento. Grazie a tutti loro capii che dietro al mestiere del cooperante ci deve essere altro, altrimenti non può funzionare. Così tornai in Italia, con mille domande e poche risposte. Ma continuai i miei studi in Produzioni Animali.

 

Nel 2019 finii la magistrale e decisi di provare a candidarmi per il servizio civile, ma non riuscivo a trovare un progetto che faceva per me. Dopo sei anni a studiare materie relative agli allevamenti decisi di provare a digitare “servizio civile+allevamento”. Il primo risultato che venne fuori fu un progetto in Albania. Dentro di me pensai che fosse un segno. Le cose non succedono mai a caso. Così applicai, fui selezionata e partii.

 

Era agosto 2020, appena dopo la prima ondata del Covid-19, ed io ero in Albania per la seconda volta. Questa volta ero con un'altra ONG, abitavo a Scutari e lavoravo nelle zone montane di Puka e Fushe-Arrez. In questi 11 mesi ebbi la possibilità di approfondire la mia conoscenza del territorio, di entrare in contatto con altre realtà, diverse da quella di Tamara, e soprattutto di apprendere più informazioni e fare pratica con il mondo della cooperazione. Lasciatemi passare il termine, ma mi ero innamorata di questa tipologia di lavoro (ovviamente perché non conoscevo ancora di tutta la burocrazia e la parte amministrativa, per la quale sono negata).

 

Quando tornai in Italia a giugno, consapevole del fatto che non ero ancora pronta a livello di conoscenze ad affrontare la folle competizione per le vacancy di lavoro per la cooperazione internazionale, decisi di applicare subito per il Master in Cooperation and Development di Pavia, e fu una manna dal cielo per me. Un anno incredibile che culminò con tirocinio. Un tirocinio che avrebbe dovuto portare in Angola, ma che, alla fine, mi riportò in Albania con il VIS. Fu così che per la terza volta arrivai in Albania. A questo punto, come si fa a dire che non è destino?

 

Tornare, da un punto di vista personale è stato gratificante e ristorativo, e da un punto di vista lavorativo, una ricchezza. In questi otto anni è cambiata lei: sì lei, perché per me, nonostante tutto, l’Albania è donna, e sono cambiata io. Se mi dovessi riferire al “Ciclo Emotivo del Cambiamento” per capire dove siamo, gli stadi sarebbero diversi. Mentre io mi trovo nella fase del “realismo incoraggiante”, a marcia ingranata con lo sguardo in avanti, lei si trova nella “valle della disperazione” consumata tra l’esaltazione per un nuovo obiettivo e la disforia per lo sforzo necessario al raggiungimento di tale obiettivo. E come biasimarla, dopo quarantacinque anni di dittatura e trentadue anni di “democrazia” dove gli albanesi hanno dovuto giustificare il loro essere albanesi tutti i giorni, persone che nella “crescita” del paese ci vivono, e che sulle loro spalle portano il peso, le frustrazioni e le contraddizioni di un’apertura solamente cominciata, lontanissima dall’essere paritaria. L’Albania deve confrontarsi un sistema giudiziario scoraggiante, con la corruzione endemica e con il dilagare delle attività criminali, e queste sono solo alcune delle problematiche. La soluzione sembra essere solo quella di partire, in silenzio, a testa bassa, e ricominciare altrove, senza reagire. Ma non siamo più negli anni in cui non si può alzare la voce e il primo modo di reagire a questi fenomeni è raccontarli e poi affrontarli, ma di petto.

 

Io non pretendo che questo mio flusso di coscienza ribalti la situazione dell’Albania, dopotutto abbiamo detto che sono nella fase del realismo, però quello incoraggiante. E quindi spero. Spero che un giorno o l’altro qualcuno si svegli dicendo “basta”, ma non un basta detto tra amici per lamentarsi, un basta urlato per le strade, un basta che fa eco, un basta di speranza. Quella stessa speranza che metto tutti i giorni nel mio lavoro, quella speranza, che insieme all’amore per lei, è ormai inestinguibile.