30 aprile 2014 - Rinnoviamo il nostro invito per la liberazione di Giovanni Lo Porto e del suo collega Berndt, cooperanti rapiti in Pakistan 15 mesi fa. Lo facciamo con la lettera pubblicata il dall'Huffington Post a firma di Daniele Mastrogiacomo che richiama l'attenzione sul caso. Il VIS rilancia l'appello per la loro liberazione, cosi come facciamo dal giorno del rapimento.
C'è un ragazzo, un italiano, logistico di una Ong tedesca, da 15 mesi prigioniero degli jihadisti. Si chiama Giovanni Lo Porto ed è l'ultimo nostro ostaggio privato della sua libertà. Nel caos politico del momento, ma non solo adesso, il paese si è scordato di lui. Attorno alla sua vicenda c'è solo silenzio. Non se ne parla, la Farnesina si trincera dietro il riserbo, la famiglia tace. Da un anno e mezzo. Giovanni probabilmente sarà nel Waziristan del Nord, una delle provincie autonome del Pakistan , le famose zone tribali, dove gli jihadisti e anche al Qaeda sono forti e presenti. David Rhodes, l'inviato del New York times, ci è rimasto prigioniero quasi due anni. Ma di Giovanni si sa poco e niente.
Quello che esprimo sono solo congetture. Due giorni fa mi ha scritto una sua amica e compagna di lavoro. Su Facebook: ormai è il solo canale di comunicazione. Mi ha parlato di Giovanni. Mi ha detto che sono colleghi e che lei si è sentita quasi in dovere, ad un certo punto, di uscire all'esterno. Di rompere questo silenzio che non si rivelava produttivo. Mi ha aggiunto che l'ultimo contatto con i rapitori di Giovanni risale al novembre scorso. Poi, più niente. Questa ragazza parlava ovviamente per conto della famiglia. Si consultava con me per capire cosa a mio avviso era giusto fare. Più volte in questi sei anni - tanti ne sono passati dal mio rapimento e quello di Ajmal e Sahyed - ho incontrato e ascoltato le angosce dei famigliari degli ostaggi. E ogni volta si finiva per parlare dello stesso tema: la Farnesina, le Istituzioni, ti chiedono il silenzio, la fiducia, la pazienza perché prima o poi il parente torna a casa.
Lo dico subito: non sono d'accordo. Il silenzio non paga. Possiamo pensare a Amedeo Ricucci, il collega della Rai fermato dai ribelli siriani e la mia tesi crolla davanti all'evidenza. Ci ho pensato, ovviamente. Ma ho anche pensato che il caso Ricucci e della sua troupe era diverso. Un conto è la Siria liberata, un conto le zone tribali del Pakistan. Quelle prese di mira dai droni Usa, la terra degli jihadisti più che dai Talebani, le regioni dove hanno trovato rifugio i militanti di al Qaeda.
Nei sequestri di persona bisogna trattare. Per soldi, per scambio di prigionieri, per semplice notorietà. Di mezzo c'è una vita umana. Non conta nulla la linea della fermezza, l'assurdo imperativo americano: con i terroristi non trattiamo. Washington sta trattando con i Talebani a Doha, nel Qatar. Eppure solo sei anni fa tuonava contro ogni rivolo di trattativa. I Talebani uccidevano i soldati Usa e quindi non si negoziava.
Resta il silenzio della Farnesina. Che non significa superficialità o lassismo. Significa attesa. Di qualche segnale, di un abbozzo di negoziato, di disponibilità. Giovanni Lo Porto deve tornare a casa. Libero e sano. Per ricominciare. L'Italia glielo deve. La famiglia non sa come muoversi. Vorrebbe urlare la sua angoscia ma la frena davanti ai diktat del ministero degli Esteri. Se sono convinti che il silenzio premi l'Unità di crisi agisca e liberi l'ostaggio italiano. Il paese glielo deve. Nessuno deve restare indietro. La mamma di Giovanni mi ha scritto poche parole sulla mia pagina di Fb. Parole semplici, dolci, quasi un soffio. Mi ha chiesto di fare qualcosa. Rompo il silenzio. Ricordo Giovanni Lo Porto, da 15 mesi prigioniero degli jihadisti nelle zone tribali del nord del Pakistan.
Daniele Mastrogiacomo