22 novembre 2017 - Il centro "Don Bosco Fambul" in Sierra Leone aiuta i ragazzi di strada della Capitale Freetown a ricucire le ferite dell'abbamndono e costruire il proprio futuro.
Oggi pubblichiamo la testimonianza di Giancarlo, nostro volontario in Sierra Leone e psicologo che sta facendo un’esperienza di sei mesi di tirocinio.
Lunedì 6 novembre ci sono stati dei violenti scontri tra i sostenitori delle due principali fazioni politiche che si avviano alla contesa elettorale del prossimo 7 marzo 2018. Ciascuno dei due gruppi, sceso in strada in corteo, quando si è trattato di passare alla violenza ha cercato di reclutare anche i ragazzi di strada, che di politica o non ne sanno o non gli importa. Qualcuno è stato coinvolto con le buone, altri con le cattive; nella confusione un po’ tutti hanno subito le conseguenze, tranne chi è riuscito a scappare.
Con l'intervento della polizia è stata interdetta tutta l'area intorno alla piccola piazzetta usata per le attività serali degli operatori sociali. Il Don Bosco Mobile ha quindi accolto chi ha potuto, circa una ventina di ragazzi, e ha spostato il programma nell'edificio di Fambul. Ci si è attrezzati in una veranda, non essendoci una sala libera per riunirsi, giacché, emergenza nell'emergenza, al 37 Forth St., dove ci troviamo, i salesiani stanno dando ospitalità e assistenza a circa 230 tra donne e bambini, madri, vedove e orfani, rimasti senza nulla dopo una frana che lo scorso agosto ha cancellato un quartiere intero uccidendo oltre mille persone.
Il programma però deve andare avanti, così ci si arrangia. Lascio i bambini con cui stavo giocando in cortile e raggiungo il gruppo nella veranda. Visto quanto successo in strada poco prima, gli operatori mi chiedono di dire ai ragazzi "qualcosa sulla violenza e la violenza in strada". "Io? - rispondo - che ne so io della violenza, della violenza in strada per giunta?". Ne ho viste di espressioni di violenza in vita mia, anche sulla mia pelle, che non si pensi che in Italia, nord o sud, si vada in giro tutti mano nella mano e saltellando felici. Ad ogni modo neanche in quella dimensione mi permetterei di dare lezioni su alcunché. Men che meno a questi ragazzi, che in strada ci dormono, se ne impregnano vestiti e occhi, se ne segnano la pelle con cicatrici profonde. Ci penso dieci minuti, ascoltando uno di loro che viene invitato a raccontare ciò che è successo qualche ora prima, perché le notizie non sono né tante né chiare. Parla in Krio, per cui mi serve la traduzione di un operatore. Quando quello ha finito, questi torna a farmi la stessa richiesta di prima.
Sono arrivato neanche dieci giorni fa, mi hanno presentato come "psicologo" (le virgolette le metto io), figura professionale che in Sierra Leone non esiste, per cui le aspettative di tutti sono alte.
Decido che non posso farmi da parte: "Mi chiedono di parlarvi di una cosa che non conosco. Di cui neanche so." - l'operatore mi traduce dall'inglese al Krio - "Voi ne sapete certo più di me. Raccontatemi, in modo che anche gli altri possano ascoltare". Partendo dal racconto di un altro testimone circa gli scontri a cui hanno assistito poco prima, passiamo i quaranta minuti successivi a fare un semplice esercizio di narrazione, condivisione e partecipazione, in cui ognuno, se lo vuole, può alzarsi in piedi, presentarsi e dire ciò che pensa sul tema.
Qualcuno ride quando a parlare è uno dei più piccoli. Anche questo diventa argomento di confronto. Nel tempo che è trascorso, ciascuno ha espresso o ha ascoltato le opinioni dei compagni su "violenza", "vendetta", "ascolto", "rispetto", "emozioni", per fare una sintesi che non è sintesi. Dobbiamo interromperli per cenare perché andrebbero avanti ancora: "Sei un maestro di scuola?", uno mi chiede. "Insegnaci l'italiano", fa un altro. Li rimando alla prossima volta, è giunto il momento di salutarci ma questo nuovo entusiasmo fa bene a tutti. Anche se io ho fatto pochissimo, come spiego anche agli operatori che hanno partecipato insieme a me. "Ho solo cercato di mostrare loro che forse tante risposte le hanno già". Ci salutano con calore, mentre attraversano il cancello d'ingresso.
Il giorno dopo la piazzetta è di nuovo accessibile, le attività possono riprendere regolarmente. Al momento del discorso degli operatori ai ragazzi, invece soltanto di parlare al gruppo, li invitano a raccontare, similmente a come fatto la sera prima. Io mi tengo in disparte ad osservare come sto facendo da settimane. Il tema è sempre lo stesso ma alcuni di quelli che avevano partecipato al piccolo esperimento hanno qualche consiglio per chi invece non c'era.
Qualcosa di impercettibile e terribilmente fragile si è mosso. Dopo cena un piccolo gruppo arrivato tardi vuol vedere se c'è rimasto qualcosa da mangiare ma purtroppo la risposta è negativa. Due ragazzi che stanno finendo di cenare hanno un diverbio non bene identificato, si sfiora la rissa. I ritardatari si aggiungono alla confusione aumentando la tensione e si fa fatica a mantenere un qualche tipo di ordine. Alla fine la maggioranza si disperde e torna a quello che chiama casa. Solo alcuni restano per aiutare a smontare l'attrezzatura e lavare i piatti. Spegniamo le luci. Uno di loro, M., con cui sto cercando di fare amicizia, mi saluta con la promessa, un giorno, di raccontarmi la sua storia, forse anche di farsi aiutare, penso io. Si aggiusta il cappuccio della felpa sulla testa e mi sorride.