6 febbraio 2018 - Dieci giorni fa ho superato la soglia dei due mesi. Senza quasi rendermene conto, se non fosse per la metamorfosi che sento di aver subito (o provocato?). All’inizio non riuscivo a prendere le distanze dai ragazzi, a non portarmeli mentalmente a casa e a non sognarli la notte. A non starci male fino alle lacrime quando scappavano e a non sentirmi invisibile o colpevole. E non riuscivo neanche ad accettare la freddezza e l’indifferenza dei miei colleghi, che nella migliore delle ipotesi non reagivano come avrei voluto, mentre nella peggiore sembrava mi mettessero i bastoni tra le ruote. Iniziavo a sentirmi don Chisciotte contro dei mulini ciechi e inarrestabili che mi avrebbero inevitabilmente distrutto.
E forse è proprio per questo, per un profondo istinto di sopravvivenza, che mi è scattato qualcosa dentro ed ho iniziato a vedere le cose, e soprattutto a viverle, sotto tutta un’altra luce. Ho capito che bisogna festeggiare le vittorie, saperle riconoscerle come grandi gioie, e non piangere le sconfitte quotidiane, ma sfruttarle come lezioni. Soprattutto è importante capire fin dove si può arrivare, agire, aiutare, e quando invece si deve semplicemente accettare che le persone prendano le loro decisioni e seguano la propria strada, perché forse non è ancora arrivato per loro il momento di cambiare. Il che non significa adagiarsi sugli allori, anzi. Ogni giorno è una nuova possibilità di miglioramento, e sta a noi trovare il modo giusto, quella chiave che può sbloccare la situazione. Perché a volte basta davvero una parola. E l’umiltà per accettare di essere una formica in un formicaio sempre esposto alle intemperie, che può conservarsi e crescere solo grazie alla forza del gruppo.
Ma quando vedo i ragazzi tornare, dopo giorni di vita in strada, chiedendomi scusa perché hanno paura di avermi deluso e rientrando perché in fondo è proprio lì che si sentono a casa, allora davvero penso che non è poi tutto inutile e che qualcosa, nel mio piccolo, lo sto lasciando. A quel punto mi accorgo che la vera metamorfosi, che coincide con l’obiettivo del centro e del progetto, e a cui ho la fortuna di assistere come a un miracolo, è la loro. Non importa se non dicono grazie, sono pur sempre adolescenti costretti a fare i duri, ma non riescono a nascondere il sollievo che provano nel ritrovarmi. Il velo di stanchezza e sofferenza è evidente nei loro occhi, e quel momento in cui sparisce è proprio glorioso. Per alcuni ci vogliono giorni anche solo per accennare un sorriso, e quando ci riescono il loro viso cambia completamente. Se guardo le foto del momento in cui sono entrati mi sembra incredibile vedere quanto sono diventati più belli! Il percorso è tortuoso, cadere è più facile che rialzarsi, ma ognuno a suo modo e con i suoi tempi può farcela, ed io sono fiera di poterli accompagnare anche solo per un breve tratto.
Se dovessi riassumere in un’immagine la mia vita in Bolivia direi: “E’ come mangiare la zuppa con la forchetta!”. Un esercizio zen, possibile solo se fatto col sorriso.
Francesca Tosetti, volontaria SC Bolivia