9 novembre 2015 - Le parole contano, soprattutto nei Grandi Laghi e, ancora di più, se sono accompagnate da fatti come sparizioni ed omicidi, attacchi e violenze, repressione del dissenso e ribellione armata. Le parole hanno segnato, nella storia dei Paesi che compongono questo piccolo pezzo d’Africa, l’avvio di eventi che nessuno ha saputo riconoscere in tempo nella loro crudeltà e nell’impatto criminale e sanguinario che poi hanno manifestato.
Pierre Nkurunziza, il presidente burundese, nei suoi ultimi discorsi, ha fissato la scadenza: se entro il 7 novembre (sabato scorso) non saranno finiti gli attacchi degli oppositori, questi ultimi “verranno trattati” come nemici della nazione.
È solo l’ultima tappa di quanto sta accadendo in Burundi da luglio, dopo l’elezione per il terzo contestato mandato (il limite costituzionale nel Paese è formalmente di due) proprio del presidente Nkurunziza. E ora la violenza potrebbe crescere ancora di più. “Chi non si adeguerà al cessate il fuoco – ha detto Nkurunziza – sarà trattato come un terrorista e un nemico della nazione. Questa è l’ultima chiamata”. Subito dopo, il presidente ha invitato la polizia a ripristinare l’ordine, in particolare a Bujumbura, utilizzando “ogni mezzo a propria disposizione”.
Il rischio è che si stia preparando un nuovo genocidio, come il sito di Libération titolava lo scorso 4 novembre, perché ogni giorno porta nuovi omicidi e parole dal significato lugubre. Non solo quelle di Nkurunziza, ma anche il discorso ai sindaci lo scorso 1° novembre, del presidente del Senato Révérien Ndikuriyo. Durante il discorso, sono tornate parole, pronunciate in lingua kirundi, come l’invito a "kora" (lavorare) e "akazi" (lavoro) che, durante il genocidio del 1994 nel vicino Rwanda, celavano l’invito al massacro, parole e discorsi apparentemente pacati e asettici, ma dai propositi più o meno reconditi, ma certamente preoccupanti. Tutto ciò sembrerebbe preparare la popolazione ai massacri di massa.
Gli scontri, intanto, proseguono. Il 3 novembre, un confronto a fuoco nella periferia rurale di Bujumbura tra agenti di polizia e oppositori si è concluso con un bilancio di 8 morti e 18 arresti. Sono salite così a 200, secondo quanto riferisce l’agenzia Misna, le vittime di una vera e propria guerra civile, per cui la comunità internazionale non è riuscita ad andare oltre l’espressione di una “sincera preoccupazione”.
Non intendiamo proporre letture allarmanti o radicali degli eventi in corso in Burundi, ma la storia recente, che la nostra ONG ha vissuto nei Grandi Laghi, ci impone di non assumere visioni riduzionistiche. Al contrario, il bene della povera gente, dei bambini e dei ragazzi, delle loro famiglie, ci invitano a tenere alta l’attenzione e ad impegnarci perché, al di là dei termini e della nomenclatura usati per i massacri, questi non si verifichino più. Aiutateci a continuare il nostro impegno a favore dei gruppi più vulnerabili, aiutateci soprattutto a sensibilizzare l’opinione pubblica e la comunità internazionale, prima che sia troppo tardi.