19 gennaio 2012 - Un’unica carta per risiedere e lavorare. Che darà anche agli immigrati dall’Est non comunitario (in Italia quasi 1 milione di residenti) gli stessi diritti sociali, fiscali e pensionistici dei colleghi Ue. La nuova norma è riservata a chi è in regola. Con esclusioni e distinguo, fissati dagli Stati
Basterà presto un solo documento ‘per l’impiego e per il soggiorno’ ai lavoratori extracomunitari legalmente residenti nell’Unione europea. E riconoscerà loro gli stessi diritti sociali dei cittadini comunitari. A sorpresa la norma del Permesso Unico è stata votata dall’Europarlamento lo scorso 14 dicembre. È passata la versione più inclusiva del provvedimento, che ha raccolto l’adesione dei socialisti, degli ecologisti e, contro tutti i pronostici, anche dei liberali, una parte dei quali si è sganciata dall’accordo con i popolari.
Due anni di tempo per ratificarlo
Passato senza modifiche in Consiglio europeo (cioè il tavolo dei 27 governi dell’Unione), entrerà in vigore anche nella legislazione italiana: il Parlamento di Roma avrà 2 anni di tempo per ratificarlo. A farlo sono chiamati 24 Stati UE e non 27, perché al nuovo provvedimento non hanno aderito Gran Bretagna, Irlanda e Danimarca. Non si tratta di un permesso valido su tutto il territorio dell’Unione. Ogni Stato membro avrà diritto di regolare il flusso di lavoratori extracomunitari, ma le autorità nazionali saranno obbligate a rispondere a una richiesta di Permesso Unico entro 4 mesi, motivandola, e riducendo le incertezze, l'iter amministrativo e i tempi d'attesa per i cittadini dei Paesi terzi. Una volta rilasciata la nuova carta, al lavoratore immigrato non dovrà essere chiesto nessun altro documento.
“Si tratta di dare valore e riconoscimento al contributo degli immigrati nei nostri Stati membri” ha detto il Commissario agli Affari interni, la svedese Cecilia Malmström. Il Permesso Unico riconoscerà loro i diritti alla rappresentanza sindacale, alla sicurezza sociale e alla formazione professionale che finora li dividevano dai colleghi comunitari. Potranno avere accesso a beni e servizi, inclusi gli alloggi sociali (con restrizioni fissate dagli Stati). Avranno inoltre pari trattamento nel riconoscimento di qualifiche professionali e accademiche, per la tassazione, per i sussidi di disoccupazione e il trasferimento della pensione. “Questa direttiva semplifica la vita agli immigrati. È un passo importante per facilitare la migrazione legale, contribuendo all’arricchimento culturale e al rafforzamento delle nostre economie” ha aggiunto la Malmström.
L'Europa dei diritti e della crisi
Dunque l'UE, terra dei diritti. Che mette meglio al riparo dalla xenofobia chiunque vi lavori ufficialmente. Ma è pur sempre una direttiva figlia della crisi. Ha per obiettivo quello di assicurare manodopera all’Unione in vista della difficile ripresa dei prossimi mesi, a condizioni quanto mai flessibili. Progettata per “controllare questa manodopera, per soddisfare le esigenze del mercato UE con l’immigrazione regolare e per arginare quella illegale”, come spiegato dalla relatrice Veronique Mathieu, eurodeputata francese del Partito popolare europeo, la direttiva ha il merito di unificare 24 legislazioni diverse. Ma nasce fitta di deroghe ed esclusioni.
I singoli Paesi potranno decidere, ad esempio, se limitare l’accesso ai sussidi familiari e di disoccupazione ai lavoratori con permesso superiore ai 6 mesi. E restringere il diritto all’alloggio sociale per chi ha contratti di lavoro in corso. L’assegno di disoccupazione potrà essere rifiutato a chi è entrato per motivi di studio, e la conoscenza della lingua fissata come discriminante per partecipare ai corsi di formazione.
Il dado comunque è tratto. Finiranno diseguaglianze brucianti tra colleghi di lavoro. Impiegati dalla Turchia, dai Balcani e dal Caucaso, oltre che africani, asiatici e latinoamericani, purché regolari, si vedranno riconosciuta la pensione, una volta rientrati nel Paese d’origine, alle stesse condizioni dei cittadini dello Stato membro in cui hanno maturato il trattamento previdenziale. Non saranno cioè costretti per goderne a restare nel Paese UE dove l’hanno maturata, dopo averne sostenuto il welfare.
“E’ la fine dello sfruttamento dei lavoratori regolari” per l’europarlamentare dei socialisti democratici ed ex segretario Cgil, Sergio Cofferati, che però ha segnalato tra le ombre della direttiva le deroghe all’uguaglianza di trattamento concesse agli Stati membri.
Gli esclusi
Dal permesso unico restano esclusi rifugiati (per cui ci saranno provvedimenti comunitari ad hoc), sfollati interni (con possibile riferimento a rom non nazionali, provenienti da Paesi est europei), lavoratori distaccati e dipendenti di multinazionali. Ad esempio tuttora molte compagnie potrebbero trovare più conveniente, oltre che legale, trasferire i propri dipendenti di Paesi terzi, impiegati nelle sedi UE, in stabilimenti in Turchia o in Serbia, pagando loro stipendi e contributi alle stesse condizioni delle nazioni d’origine. La direttiva non riguarda anche addetti con contratto fino a 6 mesi, stagionali, lavoratori ‘alla pari’, familiari di chi proviene da Paesi con cui l'UE ha accordi di libera circolazione (come quasi tutti i Balcani occidentali). Per questo, secondo eurodeputati come la tedesca Cornelia Ernst (sinistra europea, in Germania aderente alla Linke), “non c’è reale semplificazione per i cittadini di Paesi terzi impiegati nell'UE”.
Finora nella politica comunitaria sull’immigrazione, si distinguevano provvedimenti come la direttiva "ritorno" (2008) sul rimpatrio dei clandestini, la Carta Blu per attirare nell'UE cervelli da Paesi terzi, creando una corsia preferenziale d’accesso per le loro qualifiche, o le sanzioni "dissuasive" (2009) di contrasto al lavoro clandestino. La nuova direttiva, grazie al recente Trattato di Lisbona, è la prima votata con la procedura della codecisione sui temi sociali, in cui Europarlamento e Consiglio hanno pari poteri legislativi.
I numeri in Italia
In Italia il Permesso Unico potrebbe riguardare, solo tra gli est europei non comunitari, 977 mila persone (circa un terzo degli stranieri residenti), secondo stime Istat 2009. La direttiva arriva in una fase in cui la crisi economica sta producendo in Europa un’interpretazione restrittiva delle norme, per cui perdere il lavoro equivale alla perdita della carta di soggiorno. La convenzione Oil (Organizzazione internazionale del lavoro) dell’Onu (n.143/75) però, ratificata anche dall’Italia, disponeva il contrario: “Il lavoratore migrante non potrà essere considerato in posizione illegale o comunque irregolare a seguito della perdita del lavoro, perdita che non deve, di per sé, causare il ritiro del permesso di soggiorno”.
L'UE affacciata su una crisi profonda, e alle prese con la materia "migrazioni", diventata negli anni elettoralmente svantaggiosa, dispensa il welfare che può, puntando ad assicurarsi risorse umane, garantirne i diritti, ma secondo l’equazione lavoro-residenza, e in forme revocabili.
Quanto all’Italia, oggi la difficoltà per molti migranti dai Paesi Terzi è aver perso terreno rispetto all’ultimo decennio, tornando clandestini dopo una stagione - talora lunga - da lavoratori regolari. Sono stati infatti quasi 700 mila, secondo l’ultimo Rapporto Caritas-Migrantes, i permessi di soggiorno non rinnovati nel 2010, e per quest’anno si attendono cifre anche più severe. Il numero è pari alle ultime tre sanatorie (circa una ogni 5 anni, più quella per colf e badanti che ne comprende circa 200 mila). Quanti hanno perso il posto, si giocano anche il permesso di soggiorno. Per lo più senza rientrare nei Paesi d’origine, restano con impieghi in nero. Perché nonostante la crisi, settori come agricoltura, edilizia e lavoro di cura, non possono fare a meno di loro. L’efficacia del Permesso unico si misurerà anche sulla percentuale di emersione di queste realtà
fonte: Laura Delsere osservatorio Balcani e Caucaso