La condizione di straniero mi appartiene - La voce dei nostri volontari dal Burundi

 15 dicembre 2011 - Il Burundi visto dagli occhi del nostro volontario in servizio civile, arriva la terza parte del racconto di Luca. (Per leggere i racconti precedenti clicca su prima parte e seconda parte)

“Quando presi la patente a diciotto anni era il 2003. E quella sbarra, rossa e bianca, non l’ho più incrociata.


Consegnato il mio passaporto mi guardo attorno. La gente appartiene ad ogni classe sociale, almeno cosi mi pare. Poveri, rifugiati, commercianti, funzionari, notabili. Mi avvicina un tizio grasso e dalla faccia più simile ad un pallone che ad un viso chiedendomi quanti soldi voglio cambiare. Gli dico che non ne ho bisogno e lui insiste dicendomi di non fidarmi del cambio ufficiale perché i governi son ladri e applicano tassi iniqui. Questo Robin Hood moderno si aggira tra i nostri viaggiatori con ampie mazzette di franchi BU e shellings parlando un francese sapiente ed un inglese stentato. Prende valuta, cambia con altra, intona lunghe conversazioni sul denaro e sulla povertà del franco rispetto allo shelling. Questo tenero contrabbandiere mi ricorda le storie che mio padre mi raccontava de nostri passeur negli anni ’60 e ’70, riciclatori di sigarette, lire e franchi francesi, marocchini, meridionali in cerca di un sogno oltrefrontiera.


Per ottenere valuta valida, mentre attendo che il mio passaporto mi venga riconsegnato, vado legalmente all’ufficio di cambio che si trova a cinque metri dall’ingresso nel nuovo paese. “Acquisto shellings, vendo dollari americani”.
Firmo la ricevuta, ritiro il gruzzolo e torno in cima alla collinetta. Colline, colline, colline verdi chiare e giallognole, secche. Agosto, stagione secca. È circa mezzogiorno e siamo a circa 1800 metri d’altezza. Una leggera nebbiolina è il perfetto sipario per questa giornata atipicamente uggiosa. La terra è rossa, incanalata in lunghi e tortuosi sentieri che s’inerpicano oltre l’orizzonte che il mio sguardo può concedersi. Scollinano. Scorgo una processione di donne, non più di dieci, con pesanti otri sulla testa incamminarsi su per quei sentieri millenari, avvolte in panni dai mille colori, tanto lontani dal mio modo abituale di vestire. Il sapore di quella mattina. Mi guardo attorno. Con il mio amico Alessio ammicchiamo all’idea di essere gli unici due bianchi in un raggio di almeno ottanta chilometri quadrati. Accettare di percorrere quei centoquaranta chilometri che dividono le due frontiere con un bus di linea ove i pennuti superano di misura gli umani. Ove le strade sembrano mulattiere asfaltate. Qual viaggio scelto per attraversare il cuore dell’Africa nel paese che più di tutti ricorda nella sua conformazione un cuore malato. Mi ricordo di quando divorai Le vene aperte dell’America Latina e della definizione iniziale che Galeano fornisce del suo meraviglioso continente: Cuore malato.


Mi domando se sono io che inseguo questi cuori malati o sono loro che inseguono me.
Attraversare il Burundi con i burundesi, con i congolesi, con i tanzaniani, con una ragazza che da Bujumbura si dirige a Dar es Salaam per poi rientrare a casa sua a Lusaka, condividendo con lei un piatto di riso e di cosce di gallina bagnate in un sugo dove l’olio batte il pomodoro. Con un ragazzo che da Bukavu cerca di fare fortune calcistiche nel campionato sudafricano, mi dice. Con la mia famiglia che per scappare al genocidio del 1994 trova asilo politico in Belgio nel movimento conosciuto come la diaspora burundese.


La condizione di straniero mi appartiene. Non so se una componente cromosomica imprime fin dalle più tenere età questo carattere. Sentirsi a proprio agio, sentirsi confortevole. Ne parliamo con Alessio. Cos’è questa sensazione di euforia e di gioia che abbiamo quando parliamo una lingua che non è la nostra natia? Cos’è questo amore nel leggere libri e giornali che parlano di gente con nomi perlopiù impronunciabili per noi europei dalla vista corta? Cos’è questo ammirare piante e strade e donne e case e cibi e luoghi e scuole dai tratti cosi fascinosamente lontani dai nostri abitudinari? Cos’è questo nostro reiterato rifiuto verso un mondo che ci costringe sempre a guardare avanti e mai a guardarsi intorno?


Avremo sviluppato meglio questo concetto circa cinquantasei ore dopo quando, al ritorno nel campo tendato che gentilmente ci ha ospitato due notti al Serengeti, ci chiedevamo come troppe poche volte ci ravveniamo dell’importanza dell’etimologia dei nomi. Serengeti in lingua masai vuole dire “endless place”. Posto di cui non si vede la fine. Dove la fine non esiste. E di come, caro Alessio, noi tendiamo sempre l’attenzione alla dimensione orizzontale la dove ci si azzanna socialmente su concetti continuamente verticali. Scalone, scala sociale, piramide dei redditi. Chissà se quando le facevo con mio padre, le parole crociate, prediligevo già le orizzontali alle verticali.”

Luca Catalano
Volontario VIS in Burundi