02 dicembre 2011 – Continua il racconto di Luca, volontario VIS in Servizio Civile in Burundi. (Per leggere la prima puntata clicca qui).
“… Scelgo la prima. Salgo poco a poco e vengo avvicinato durante la scalata da un giovane ragazzo cui la lebbra ha mangiato i piedi in triste esposizione. Si muove grazie a due stampelle di legno grezzo. Chiude le mani chiedendomi l’elemosina. Mi approcciano dei ragazzini di strada, vestiti di cenci lacerati, strappati, senza tinta consumata dalla polvere e dalla sporcizia. Si toccano il ventre. Mi chiedono cibo. Io alzo le mani in entrambi i casi. Inclino la bocca come a dire: “Non ho nulla, sorry”. È falso. Ho nella tasca interna dei pantaloni ben stretti circa trecento dollari che dovrò cambiare in shellings. Nella conversazione tra me e me lascio emergere che nella vita non ci si può mai confrontare veramente a fondo con la disperazione se non ci si casca dentro. L’ho vista mille volte in questi mesi, nelle sue forme più allucinanti. Indossa gli abiti della miseria, della fame, dei vermi nella pancia, dell’acqua nera, dell’AIDS, della malaria, del futuro torbido e delle case invase dagli scarafaggi. Non trovo una soluzione, non trovo una spiegazione, cerco solamente di non restare indifferente. È l’ultimo appiglio che ti concede la coscienza, l’ultimo salvagente quando il mare in cui nuoti è caricato con i caratteri dell’indecifrabilità e del dolore. È un antidoto al dolore, alla vigliaccheria. Non restare indifferenti.
Affianco una famigliola, una volta in cima alla collinetta, composta da cinque elementi. Un padre ben vestito in camicia rosa e pantaloni di seta neri. Una moglie dal portamento fiero e nobile e ben avvolta da un abito tradizionale multi colorato. Una coppia di gemelli di nove anni e una bimba dai capelli ricci e aggrovigliati di cinque anni. Chiedo informazioni sul modulo che dovremo completare alla frontiera, quali procedure ci saranno, cercando di dissimulare un poco di preoccupazione.
Sono cordiali. Mi raccontano mentre facciamo una fila disordinatissima e sgraziata davanti alla baracca della polizia di frontiera, della loro condizione di rifugiati politici in Belgio, della loro vita nel freddo Paese anseatico distante circa 9.000 km dal loro Paese natio, della loro oramai decennale esperienza a Liegi. Quando la famiglia diretta a Dar es Salaam – che raggiungerà dopo altre quattordici ore di bus oltre a quelle cinque già affrontate insieme – consegna prima di me il loro passaporto, la scritta recita: Union Europeenne. Il poliziotto guarda, dice qualcosa a denti stretti in kirundi. Il padre china la testa, risponde con quattro parole mirate. Più tardi mi spigherà che, data la loro naturalizzazione in cittadini belgi, l’uomo gli ha chiesto di provvedere di più ai bisogni del loro Paese natio, senza dimenticarsi che la patria è comunque, sempre, una sola. La sua risposta è stata difensiva come sempre: quando qualcuno gli fa pesare la sua condizione di privilegiato risponde “Non lo scordo nemmeno per un istante”.
Una piacevole coincidenza geografica ha fatto sì che la mia anima rimanesse sempre sensibile al concetto di frontiera. Quando i miei genitori, migranti dal profondo sud della Calabria verso i lidi costieri della Riviera dei Fiori, mi portavano a Mentone o a Nizza con rapidi trenta minuti di auto, subito dopo aver attraversato Ventimiglia, Latte, Grimaldi, i Balzi Rossi, all’uscita di un lungo tunnel costantemente illuminato dai neon, una curva a sinistra mostrava l’Eurodrink, centro di rifugio di vogliosi compratori transalpini di liquori ed amari, una grande sbarra in lontananza fermava il fluire scorrevole delle auto. A un km dalla fatidica un cartello indicava “France 1 km”. Cambiavano: i colori delle bandiere, le divise dei poliziotti, le targhe delle auto, l’odore del mare (forse le percezioni non sono più concrete della realtà?), gli zigomi dei transitanti, le insegne dei negozi, le siepi ai bordi delle strade.
Quei minuti in coda rendevano temporalmente concreto l’approcciarsi a un posto differente, un mondo sconosciuto agli occhi di un bambino, un luogo cosi vicino in termini di chilometri ma cosi lontano in termini di emozioni. Varcare la frontiera non aveva nulla di meccanico. Non aveva nulla a che vedere con la patente richiesta a mio padre al volante da due divise differenti. Era un oltrepassare una soglia viva, che parlava, destando emozioni, aguzzando gli sguardi, accentuando le orecchie per cogliere nuovi suoni."
Luca Catalano
Volontario VIS in Burundi
PER LEGGERE LA TERZA PARTE CLICCA QUI