"Pacchetto sicurezza: alcune domande, in nome dei nostri figli"

Ho seguito con attenzione in questi mesi le vicende di approvazione del cosiddetto pacchetto sicurezza.
Ho colto le reazioni positive, talvolta trionfalistiche, di chi attendeva con impazienza queste norme.
Ho assistito alle reazioni, talora molto concitate, di chi ha accolto negativamente il provvedimento.
Sono già stati formulati tantissimi rilievi critici sul piano tecnico e politico. Mi pare superfluo ripercorrere gli stessi temi con identiche dolenti note.
Piuttosto mi restano nel cuore alcuni interrogativi, che ritengo importanti.
Sono domande che tutti ci possiamo porre: come cittadini di uno stato membro del G8, come appartenenti ad unico genere umano oppure, se preferite, come figli e nipoti di migranti del passato o, ancora, come padri di futuri cittadini del mondo, forse di nuovo sospinti dallo onde della globalizzazione verso nuove rotte migratorie.

In nome di che cosa il nostro paese applicherà queste norme?
Della sicurezza? Della libertà da invasori? Della paura del diverso o della speranza di un mondo diverso?
Lo stato di clandestinità rappresenta una condotta penalmente rilevante? E come potremo configurare un dolo o almeno una colpa in centinaia di vittime della tratta di schiavi?
Ammasseremo centinaia di persone se non migliaia in centri di espulsione. Con quali garanzie di rispetto dei diritti umani inalienabili della persona, che chiediamo così insistentemente alla Cina e all'Iran?
Ma davvero nessun servizio pubblico, nemmeno quelli essenziali, verrà riconosciuto ai clandestini ed ai loro figli? Davvero non daremo ai loro neonati il diritto di esistere anagraficamente?
La collettività potrà riunirsi in ronde per garantire la sicurezza. Squadre senza armi materiali ma armate del bisogno di sicurezza. Chi controllerà questi controllori? Chi dirà loro di non sostituirsi all'autorità? E intanto l'autorità dello Stato dove e come manifesterà la sua presenza?
E' stato mille volte ripetuto che molte di queste norme (il reato di clandestinità, per esempio) sono già vigenti in altri paesi. Dobbiamo ridurci all'imitazione altrui o possiamo - da ex popolo di migranti, pericolosi e sgraditi ai più - rendere al mondo ed alla Storia una testimonianza diversa? Dire al mondo che la sicurezza del pianeta dipende dalla sua coesione, dalla reciproca responsabilità fra persone, popoli, continenti?
Allora viene da chiedersi, che cosa sarà l'Italia dopo un anno di norme come questa? E dopo cinque anni?
Qualcuno sarà riuscito ad applicarle? Avremo davvero trasformato l'intero paese in un giardino di sicurezza ed incolumità: senza criminalità, individuale e organizzata, incidenti stradali e ferroviari, incidenti sul lavoro, degrado familiare e sociale, disoccupazione, disagio giovanile, ... ?
Inoltre, mi interrogo: i cittadini devono gettare addosso allo Stato tutte le loro ansie ed aspettative di sicurezza? O possono assumersi la responsabilità di insegnare allo Stato che non di sola repressione si vive ma anche di prevenzione attiva, attraverso processi di educazione alla cittadinanza attiva e di partecipazione alla gestione responsabile della res publica?
A questo punto - di riflesso - mi chiedo anche: cosa dirò ai miei nipoti fra trent'anni?
Cosa lascerà loro questa Italia sventurata che non sa più educare i suoi figli e che li rinchiude in una gabbia protettiva a maglie tanto strette da impedire di vedere più tutto quello che succede là fuori, nel mondo?
Il clandestino ed i clandestini come categoria sociologica senza volto né biografia: un ciarpame della storia, con un numero di matricola al posto di un cuore di carne? Senza sogni né anima?
La grandezza di un popolo si misura anche da quanto sa dare al resto del mondo, senza timore di ricevere di meno.

Spero che i miei figli possano leggere nelle pagine del grande libro della Storia che gli Italiani hanno restituito ai migranti più di quanto loro stessi hanno ricevuto da migranti.
Che gli hanno restituito la dignità di cittadini del mondo che il destino gli aveva strappato: cittadini formati ed educati, responsabili, rispettosi, solidali. Esigenti con se stessi almeno quanto con gli altri. Aperti alle culture diverse e rispettosi di quella che li ha accolti dando loro una opportunità nella vita. Meglio ancora se aiutandoli a costruire questa civica dignità nei loro paesi di origine, circondati dall'affetto dei loro cari e responsabilmente protagonisti della sorte delle future generazioni di quei paesi.

Siamo pronti, tutto l'organismo che rappresento ma anche ciascuno di noi, in prima persona, a fare la nostra parte, con responsabilità, per far sì che questa speranza di civiltà trovi la sua piena realizzazione in quelle pagine.