I negoziati dell'Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) svoltisi a Ginevra non hanno permesso di giungere ad alcun accordo. Ancora una volta, le discussioni tra le grandi potenze si sono arenate. Troppi i punti aperti e gli interessi troppo distanti.
Forti distanze sull'apertura dei mercati agricoli "ricchi" ai paesi emergenti e ancora più grande il divario sull'abbattimento delle barriere tariffarie sull'export verso le economie in via di sviluppo. Punto di frattura il tentativo pietoso del direttore Pascal Lamy di proporre ai paesi poveri, preoccupati per i prezzi che crescono in modo esponenziale, un magro meccanismo di salvaguardia nel caso in cui le importazioni di alcuni prodotti crescessero all'improvviso del 40%. Ennesimo punto di rottura.
Con l'abbattimento delle barriere commerciali e l'industrializzazione della Cina e lo sviluppo emergente dell'India la fisionomia dei mercati mondiali è in continuo cambiamento. I giganti asiatici, e non solo loro, producono e consumano in casa quasi tutto, hanno una industria dei servizi in forte espansione e un grande mercato interno. Per questo possono decidere di accettare o rifiutare
un accordo economico non conveniente. Poi c'è la crisi americana e la poca flessibilità degli Stati Uniti a ridiscutere tariffe doganali e sussidi interni per i paesi economicamente più svantaggiati.
Dibattiti, controversie, e divergenze inconciliabili seguite attentamente da molte reti di istituzioni non governative, sindacati, organizzazioni di contadini e pescatori che hanno mantenuto una luce costantemente accesa sui negoziati di Doha. Hanno assistito ai fallimenti continui dal 2001 e hanno continuato a fare resistenza ai loro governi convinti che: "lo sviluppo non c'è tra le carte di Doha".