A meno di una settimana dalle elezioni presidenziali che hanno scatenato il caos, il Kenya è un campo di battaglia.
Gli scontri sono tra le tribù di Kikuyu - etnia maggioritaria in Kenya fedelissima al Presidente Mwai Kibaki e i Luo - e la terza etnia del Paese che segue compatta il leader dell'opposizione Raila Odinga. L'opposizione non considera Kibaki presidente legittimo del Kenya, la cui vittoria, sostiene Odinga, è basata su una «inaccettabile» frode che ha contribuito solo a buttare il Paese nel caos.
La denuncia di Odinga è stata raccolta da molti paesi nel mondo, tra cui Usa, Gran Bretagna e l'intera Ue, che al tempo stesso invitano alla calma ed alla riconciliazione. Oggi governo e opposizione si accusano l'uno l'altro per genocidio mentre il paese rischia di entrare in un vicolo cieco dal quale sarà difficile riuscire. Si calcola che ormai gli sfollati in tutto il paese siano almeno 70.000. In 350 i morti e migliaia i feriti. Iniziano anche a scarseggiare viveri e carburante.
Ormai, qualsiasi posto dove rifugiarsi non è più sicuro. Nemmeno la chiesa da sempre considerata luogo di riparo, non ispira più sicurezza e tranquillità. Infatti proprio in una chiesa pochi giorni fa sono state bruciate vive 50 persone, tra cui donne e bambini. Per sfuggire a queste violenze decine di migliaia di persone senza cibo e senza medicine tentano di sopravvivere barricate nelle chiese. Altri per sentirsi più sicuri si sono barricati vicino ai commissariati di polizia.
Tutta la comunità internazionale teme l'irreparabile. Tentativi di compromesso si stanno portando avanti con l'Unione Africana (Ua) e appelli continui di pace arrivano da tutto il mondo politico, religioso e civile.
Valbona Ndoj