17 febbraio 2016 - Pubblichiamo di seguito la testimonianza di un nostro volontario in Palestina.
Al rientro da Betlemme, roccaforte del VIS in Terra Santa, divisa tra l’ufficio presso il convento dei Salesiani e quello dell’Università, mi sono trovato ad assaporare uno degli spettacoli più incredibili. Quasi un miracolo, una magia che racchiude in se due opposti: il giorno e la notte in un unico cielo!
Abitando dentro le mura della città vecchia di Gerusalemme, ho il privilegio di vederne la pietra bianca colorarsi dei toni del cielo. Cosi come il mare, che funge da specchio e nelle giornate uggiose si ingrigisce mentre in quelle solari brilla di turchese, anche le mura della città tre volte santa fanno da riflesso per ciò che vedono. E anche loro, come me, vedevano due cieli in un unico cielo!
Se da una parte, quella che volge al mare, la volta celeste era ancora solare ma già prendeva le sfumature rosa del tramonto, da quell’altra, verso il Monte degli Ulivi la notte sopraggiungeva veloce e furtiva.
Improvvisamente mi rendo conto di essere dopo Jaffa Gate e salto giù. Accelero e scarto alcuni rabbini diretti al muro del pianto. E poi di corsa cerco di raggiungere il tetto di casa mia per potermi godere questo spettacolo indescrivibile.
Giro per i vicoli della città vecchia e poco prima dell'ottava stazione infilo la strada di casa.
Dopo la Porta Bianca, salendo le scale mi rendo conto di quanto ero illuso.
Sciocco e stolto, ho capito tardi di aver commesso un piccolo errore: ho scordato che la vita non aspetta e scorre lenta ma inesorabile. Giunto sul tetto, i colori non erano più gli stessi. Mentre la notte aveva preso il sopravvento, la scintillante Qubbat Al-Sakhrah (la Cupola della Roccia) sulla spianata delle Moschee era già divenuta un unico grumo dorato che nulla lascia intuire dello splendore che emana quando il sole la colpisce nel pieno del giorno.
Deluso ma in fondo felice, ascolto i Muezin chiamare i fedeli per la quinta preghiera e mi coccolo nella consapevolezza di aver guardato quello che le mura della città vecchia da secoli ed in rispettoso silenzio assistono: l’alternarsi del giorno e della notte sulla Terra Santa.
Torno a casa, sono in cucina e la stanza si riempie di una scarica di suono ritmato e tonfo. Sento una seconda scarica e alcuni colpi singoli e corro fuori a sentire. Dal tetto di casa mia, un orizzonte, ovviamente quello di Damascus Gate o Bab Al Amud come la chiamano gli arabi, si riempie di sirene. Quando è cosi prolungato, puoi stare certo che suonano il canto della morte. Infatti dopo neppure dieci minuti inizia il solito tam-tam di telefonate. La notizia viene confermata anche dai giornali. Ci sono altre vittime.
Porto le mani alla testa e ripenso agli ultimi giorni. Alla ricerca della Burma Road e a non trovare più i nomi dei villaggi arabi del ’48. Penso ai cavalli neri, enormi, usati per caricare la folla. Penso ai controlli, snervanti ed asfissianti ai check-point ed in giro per la città. Al rientro da Betlemme, con le scarpe da togliere sul freddo pavimento davanti al metal detector. Delle donne con il passeggino e di quelle che si fanno portare a spasso dal marito, senza sconti, in fila ma scavalcate dai propri uomini. Di quando leggi i giornali in inglese, e trovi solo un lugubre elenco di fatti di sangue e numero di morti. Penso al muro. Penso a Gaza, agli amici conosciuti e mai più rivisti nonostante si abiti a poche decine di chilometri. Penso ai melograni che ho vicino al frigo, e al loro mistero che ancora mi è ignoto.
Insomma penso e riascolto le parole finali del film sulla banalità del male di Hannah Arendt.