6 aprile 2016 - Omicidio; sterminio; deportazione; atti inumani; attacco illegittimo verso i civili; detenzione illegale di soldati delle Nazioni Unite; atti violenti con lo scopo di diffondere il terrore tra la popolazione civile; genocidio nel territorio di Srebrenica. Sono i nove capi di accusa per cui lo scorso 24 marzo Radovan Karadžić, già presidente della Republika Srpska durante la guerra in Bosnia-Erzegovina, è stato riconosciuto colpevole e condannato a 40 anni di reclusione dal Tribunale Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia dell’Aia.
Una sentenza attesa per un ventennio dai parenti delle vittime delle violenze perpetrate dalle truppe serbo-bosniache agli ordini di Karadžić in oltre venti municipi bosniaco-erzegovesi nel periodo 1992-1995. Tra questi la cittadina di Srebrenica, dove oltre ottomila uomini e ragazzi bosniaco-musulmani vennero massacrati nel giro di pochi giorni nel luglio del 1995, sotto lo sguardo assente dei caschi blu olandesi inviati dalle Nazioni Unite per proteggere la popolazione civile.
Una sentenza che ha scontentato tutte le parti in causa, sollevando un vespaio di polemiche nell’intera regione balcanica, riaprendo il dibattito sui tragici avvenimenti che hanno caratterizzato il traumatico processo di indipendenza delle repubbliche che costituivano la Jugoslavia socialista. Tra la popolazione bosniaco-musulmana serpeggia il malcontento per la mancata concessione dell’ergastolo e per l’assoluzione dal capo di accusa numero 1, relativo al genocidio in altri sette municipi bosniaci oltre a Srebrenica, nel periodo tra il 1992 e il 1994. Una folla di sopravvissuti e parenti delle vittime si era radunata fuori dal tribunale della città olandese, in attesa del verdetto, ed ha accolto con delusione l’annuncio della sentenza. “L’intero territorio della Republika Srpska è un’immensa fossa comune in cui stiamo ancora cercando i corpi dei nostri figli e dei nostri mariti. Come fanno a dire che non si è trattato di genocidio?”, le parole che una sopravvissuta ha rilasciato ai giornali bosniaci.
Se Sarajevo piange, Belgrado non ride. I media serbi riferiscono di un profondo risentimento da parte della popolazione e delle autorità riguardo alla sentenza. L’accusa è che la corte dell’Aia sia sempre stata affetta da una certa serbofobia, adottando due pesi e due misure nel giudicare le azioni di serbi, croati e bosniaco-musulmani. “Siamo realisti: durante la guerra ci sono state vittime da tutte le parti, e riconosciamo che i soldati serbi hanno commesso crimini atroci. Ma ancora non riusciamo a capire per quale ragione i musulmani e i croati non sono stati giudicati e condannati nello stesso modo per le violenze commesse contro la popolazione serba” è la vox populi che circola nelle strade di Belgrado e Banja Luka, la capitale de facto della Republika Srpska, una delle due entità che compongono la Bosnia-Erzegovina, a maggioranza serbo-ortodossa. Anche la politica ha espresso il proprio dissenso “È una sentenza in cui le posizioni politiche hanno avuto la meglio sugli argomenti giudiziari”, ha commentato Željka Cvijanović, primo ministro della Republika Srpska. Le fa eco il presidente Milorad Dodik, che ha chiosato: “questo verdetto non è altro che il risultato della pressione di lobby internazionali”.
Tuttavia il governo centrale di Sarajevo prova a inviare messaggi di distensione per favorire il dialogo interetnico. Bakir Izetbegović, il rappresentante bosniaco-musulmano all’interno della presidenza tripartita della Bosnia-Erzegovina, ha dichiarato che la sentenza è di importanza storica prima di tutto per gli stessi serbi, perché “solleva la responsabilità per i crimini di guerra dalle spalle dell’intero popolo serbo e la attribuisce ai singoli che hanno commesso tali atrocità”. Nella conferenza stampa seguita all’annuncio della condanna, ha poi sottolineato che “la giustizia è lenta, ma alla fine la si ottiene. Prima o poi i colpevoli vengono individuati e puniti per i loro crimini. Un futuro migliore e migliori relazioni [tra le tre etnie] possono essere costruiti solo sulla base dei fatti e della verità”.
Un auspicio senza dubbio condivisibile, quello del presidente bosniaco, ma che sembra scontrarsi con la realtà quotidiana della Bosnia-Erzegovina e con i sentimenti dei suoi abitanti. Basteranno delle sentenze emesse da giudici stranieri, in un paese lontano, a ricompattare la popolazione e a costruire una memoria condivisa sui tragici fatti dei primi anni ’90? Parlando con chi quel periodo neanche l’ha vissuto perché troppo giovane, tutto ciò sembra difficile, almeno per il momento.
“Come è possibile che ci vogliano più di 20 anni per accertare delle responsabilità che sono sempre state sotto gli occhi di tutti?” mi domandano stupiti i ragazzi del centro scolastico Don Bosco di Žepče. “Molti criminali dopo la guerra hanno vissuto tranquillamente assieme alle loro famiglie, per anni, mentre i parenti delle vittime aspettavano la sentenza. Franjo, a te sembra giustizia questa?”. Domande legittime, comprensibili, che forse dovrebbero porsi anche i politici a livello nazionale e internazionale. Ma ha senso continuare a guardare in questo modo al passato, rischiando di alimentare il rancore e il risentimento? Prova a spiegarmelo Mario, studente diciassettenne del centro salesiano. “Siamo i primi a voler andare avanti, a lasciarci alle spalle le divisioni del passato” mi dice mentre sorseggiamo un tè alla menta, impegnati in una partita a scacchi “Ma voi non potete capire cosa ha passato questa terra durante quegli anni. Oggi tutti parlano della nostra guerra, ma all’epoca nessuno si è interessato realmente alla Bosnia-Erzegovina, siamo stati abbandonati dal resto del mondo: non potete obbligarci ad accettare senza battere ciglio le vostre sentenze”. Mentre parla muove la regina in D6.
Šah mat. Scacco matto.
Francesco Gentile,
Volontario in Servizio Civile in BiH