22 maggio 2015 - Abbiamo chiesto a Gianni Vaggi, direttore del Master in Cooperazione allo Sviluppo di Pavia e membro del comitato esecutivo del VIS, di condividere con noi delle riflessioni all'indomani della strage degli studenti di Garissa. Ecco un testo che parte dall'orrore di quanto successo in Kenya, ma che allarga la visuale a tutto il mondo e ci aiuta a comprendere l'Agenda Post 2015 che verrà definita a settembre dalle Nazioni Unite. Guardare solo Garissa sarebbe stato riduttivo per trovare delle risposte e chiavi di lettura. Grazie professor Vaggi e buona lettura a tutti voi!
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IO SONO ...AMINA! di Gianni Vaggi
Riflessioni a ruota libera che forse hanno qualche cosa a che vedere anche con il nuovo Obiettivo di Sviluppo Sostenibile numero sedici, il penultimo:
Promuovere società pacifiche ed inclusive per lo sviluppo sostenibile, garantire l’accesso alla giustizia per tutti e costruire istituzioni efficaci, responsabili ed inclusive a tutti i livelli.
Dici niente!
è la parola che più di tutte mi viene in mente dopo il massacro di 147 studenti a Garissa, Kenya. Potrebbe essere dopo l’ecatombe del 16 Luglio nel canale di Sicilia, dopo la carneficina a Charlie Hebdo, dopo lo scempio delle 200 ragazze nel nord della Nigeria. Orrore è fra le ultime parole di Apocalypse Now e rimanda a Cuore di tenebra di Conrad. A quegli aspetti dell’animo umano che spesso si impongono e producono comportamenti ignobili/impensabili, il più delle volte di tipo collettivo e spesso determinati dalle condizioni che stanno a contorno.
Esseri razionali, comunicativi, sociali, pensanti, eppure terribilmente influenzabili e fragili. Non riesco a sfuggire al dubbio che ci siano anche componenti dell’animo umano che come dire “vengono a galla”, sono facilmente richiamate in superficie, ma pur sempre stanno dentro di noi.
Ma allora sto ad indagarmi sull’origine del male? Alla mia veneranda età? In realtà mi sto solo chiedendo se, cosa, come possiamo fare per aiutare i giovani a controllare queste ‘bolle’ di orrore che possono emergere o forse indursi, nell’animo umano. Sono ottimista, ma necessita anche essere consapevoli.
Il vaso di Pandora è stato chiuso per una quarantina d’anni dal 1944, Yalta, al 1989, dissolvimento dell’Unione Sovietica. Con tanti sbuffi terribili, quasi piccole eruzioni vulcaniche: Vietnam, Cuba, Afghanistan, dittature varie in America Latina, guerre di liberazione in Africa. Mica poca roba, ma che non ci toccava direttamente. Eppure ci sono due caratteristiche di quegli anni, diciamo soprattutto gli anni sessanta e settanta, che vale la pena ricordare.
Prima caratteristica, in molti casi, in realtà quasi tutti, c’è stata una forte partecipazione ideologica, ma anche emozionale. Il Vietnam, la battaglia di Algeri, il Cile di Pinochet. Certo si trattava soprattutto di ideologia ed emozioni diciamo di sinistra o anti americane che sono poi esplose con il ’68. Ma c’era comunque la voglia di conoscere, la capacità di arrabbiarsi, il sogno di poter cambiare. Insieme ad ideologismo, emulazione e insofferenza c’era un profondo desiderio di liberazione; erano passati pochi anni dalla liberazione del 1945 e la memoria era ancora forte. Certamente era forte l’idea di universalità: la liberazione per tutti, il terzomondismo; in modo forse ingenuo ma ci si sentiva vicini o addirittura prossimi alle genti.
Il sogno forse l’ansia che qualche cosa potesse cambiare in meglio per noi e per i popoli del mondo, anche se questo cambiamento non aveva contenuti molto precisi, forse aveva significati anche assai diversi, che però rimandavano a questa liberazione da realizzarsi e quasi a portata di mano, almeno in alcuni suoi aspetti.
Seconda caratteristica, in realtà durante tutto questo grande agitarsi il disegno geo-politico di Yalta non si è scosso un gran che; una parte, il Medio Oriente, era già stato ri-disegnato al termine della prima guerra mondiale. Nel 1948-49 vi si era intrufolata Israele, cosa non da poco, ma in fondo gestibile.
Ebbene entrambe queste caratteristiche sono quasi scomparse, attutite, smorzate.
Ora è più difficile appassionarsi per il sud del mondo; il fatto che ormai tutti i popoli abbiano qualche cosa che di simile ad uno stato nazionale sembra rendere più difficile la partecipazione emotiva, non solo l’empatia ma la voglia di condivisione. Certo abbiamo i diritti umani, lo sviluppo umano, le sfide ambientali, gli obiettivi del millennio e ora quelli sostenibili, ma non riesco a cogliere un diffuso entusiasmo e voglia di partecipazione.
In compenso si sta diffondendo la sensazione che le cose stiano cambiando, anche vicino a casa. La crisi economica ormai da fine 2008 -in realtà da Giugno 2007, ma all’inizio sembrava che riguardasse solo quelle ‘cicale’ degli americani- ha contribuito ad accentuare inquietudini e insicurezze ed a creare una sensazione di preoccupazione. Non è solo questo, oggi il mondo di Versailles e di Yalta sta cambiando ed anche in fretta. Il vaso di Pandora si è aperto, ma forse più che lasciar uscire i mali scoperchia un mondo che era assopito sotto la termocoperta di Versailles e Y alta.
Altro che The end of history and the last man del 1992 di Francis Fukuyama, pessimo titolo per un discreto libro, ma i titoli ad effetto aiutano a vendere. Un po’ come The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order del 1996 di Samuel Huntington(ma l’articolo originario è del 1993). Altro che fine, in realtà dal 1989 la storia sta accelerando; è un po’ come se il periodo dell’Unione Sovietica sia stato una specie di lunga parentesi nella storia del novecento. Io partirei dal 1979, anno dell’invasione sovietica dell’Afghanistan e dall’arrivo di Khomeini in Iran; entrambi errori politici terribili e quasi incredibili delle due superpotenze. Errori dovuti all’incapacità di leggere le situazioni locali e proprio questa difficoltà dei due imperi di interpretare i fatti era il segnale più chiaro che ormai il cambiamento era prossimo.
Seguendo Huntington: quello che sta succedendo dagli anni ottanta ha a che vedere con la “rielaborazione dell’ordine mondiale”, anche se non sono certo chi e come lo stia rimodellando.
Nel 2003 all’inizio dell’invasione dell’Iraq un amico mi disse: “George W. Bush vuole cambiare il medio oriente, il medio oriente cambierà, ma non come pensa George W. Bush”(Adel, 55 anni, 3 figli, tassista a Gerusalemme est).
Il mio amico non scrive libri, ora però legge il Corano ad ogni fermata, non lo faceva, e sua moglie porta il velo che prima non portava.
Dobbiamo essere molto realisti, possiamo fare molto poco. Tre esempi
Libia. Possiamo pensare ad operazioni navali lungo le coste libiche, a piattaforme in mare per accogliere i naufraghi, a distruggere le barche, ma in realtà è praticamente impossibile controllare il territorio. Abbiamo presente i confini della Libia, non solo la lunghezza delle sue coste, quasi 2000 chilometri, ma i suoi confini meridionali, quelli da cui arrivano i migranti? Quanti uomini in armi servirebbero per controllare il tutto?
Questo era il ‘vaso di Gheddafi’, scoperchiato da Francia ed Inghilterra nel 2011 con una operazione militare e politica che più stupida e impreparata non si può. Faccio fatica a ricordare un intervento così maldestro, incredibile e dannoso, senza un minimo di strategia per il dopo, a meno che la strategia non fosse: rimosso il dittatore fiorirà la democrazia, governeranno gli amici e ci daranno il petrolio.
Torniamo ai migranti. Bisogna intervenire nei paesi di partenza più che sulle strade dell’emigrazione, i corridoi migratori. International Labour Office e Organizzazione Internazionale Migrazioni ci dicono che per controllare i fenomeni migratori e ridurre le sofferenze dei migranti sono importanti il primo e l’ultimo miglio. Interventi su entrambi i lati sono necessari ed utili, ma per produrre effetti positivi necessitano tantissime risorse e tempi medio lunghi.
Medio Oriente e primavere arabe. In Egitto sono tornati i militari con un colpo di stato, del resto i Fratelli Mussulmani non avevano dato prova di un governo orientato ai diritti umani, però le elezioni le avevano vinte, come il FIS in Algeria nel 1991. E piazza Tahrir? L’Iraq è ormai in una guerra più o meno civile dal 2003, l’Afghanistan dal 2001, la Siria dal 2011, il Libano è appeso ad un filo e forse a due fili la Giordania.
Il cosiddetto ISIS ha innovato rispetto ad Al Qaeda ed al terrorismo internazionale, perché ora c’è il controllo di un territorio. Di fatto si entra in un modello del tipo signori della guerra; controllo anche amministrativo, giudiziario etc. delle popolazioni; possibilità di uso delle risorse e visibilità assai maggiore; identità semi-statale e quindi di contrapposizione più forte agli altri poteri: occidente, non islamici, sciiti piuttosto che sunniti, gruppi etnici, jazidi e curdi al bisogno.
E’ facile profezia che tutta l’area fra Siria e Nord dell’Iraq resterà fortemente instabile ancora per anni e qualche cosa di molto simile sarà in Libia.
Questo modello era già stato tentato in Somalia fin dagli anni ottanta, poi dai Talebani in Afghanistan e ora lo riprende Boko Haram nel nord della Nigeria. Lo schema implica quasi necessariamente che i confini siano ridisegnati, esattamente come in guerra. E’ un modello contenibile, ma assai difficile da sconfiggere; può facilmente immergersi ed aspettare tempi migliori, è ciò che sta succedendo in Somalia. C’è una sorta di continuum fra il modello di controllo del territorio ed il terrorismo degli attentati; il dove ci si colloca dipende dalle condizioni concrete e dalle forze che si possono coalizzare. Passare dal terrorismo nascosto al controllo del territorio da una grande idea di forza e di vittoria, ha molta capacità di attrazione. Come tutte le vittorie del resto.
Il terrorismo. Contenibile ma difficile da eliminare, soprattutto quando può riemergere su territori diversi e quando ha caratteristiche sovranazionali molto forti. Certo abbiamo superato gli anni di piombo, ma quel terrorismo era un fenomeno abbastanza limitato, sia del punto di vista numerico, che ideologico, pochissismi elementi sovranazionali. Eppure per creare insicurezza e paure, con tutto quello che si portano dietro, bastano davvero numeri assai limitati: a Parigi, a Garissa, nella metropolitana di Londra, a Tunisi. Credo che dovremo abituarci a convivere con queste insicurezze. Non condivido assolutamente la politica verso i Palestinesi della maggior parte dei governi israeliani dal 1967 in poi e tantomeno di quelli seguiti all’uccisione di Rabin quasi vent’anni fa. Ma ammiro la capacità degli israeliani di continuare la vita quotidiana pur in una situazione che presenta pericoli a livello personale.
Dovremo continuare a viaggiare, ad andare in aereo, a frequentare luoghi affollati, sapendo della fragilità di questi sistemi e dei possibili rischi. Dovremo farlo non chiedendo pene di morte e limitazioni di diritti personali e politici, non costruendo barriere e dighe. Non sottovalutiamo l’importanza della sicurezza e l’energia emotiva che può scatenare. Il compito davvero più difficile consiste nell’impedire che il terrorismo stravolga i nostri valori e le caratteristiche di democraticità delle nostre società. David Grossman ricorda spesso che l’ossessione per la sicurezza rischia di cambiare profondamente la società Israeliana.
Tuttavia questa impotenza da geopolitica non spiega, forse volevo scrivere giustifica/legittima/scusa -non so che verbo usare ognuno si scelga quello che preferisce- l’ignavia, peggio l’ipocrisia. La real politik non giustifica Srebrenica 1995, il bring back our girls di un anno fa, i morti nel Mediterraneo, le sofferenza degli Iracheni, Afghani, Siriani, Somali. La credibilità sta anche nella capacità di intervenire, anche militarmente; forse non è possibile sempre e comunque, ma almeno in alcune situazioni si dovrebbe tentare, anche pagando prezzi in vite umane. Del resto lo si fa all’interno degli stati nei casi di sequestri di persone. Penso soprattutto alle ragazze nigeriane rapite un anno fa: tanti media, tante denunce, tanta emozione sicuramente assolutamente sincera, ma poi il nulla. Uno strepitio assordante che non produce nulla. Mi piomba addosso una voglia di silenzio, di vergogna, o forse solo una grande tristezza. E se fossero figlie mie?
Almeno diciamo le cose come stanno, denunciamo le incapacità e i limiti a far rispettare i valori universali, i diritti umani che proclamiamo. Un po’ di parresìa, di franchezza, come chiede anche Papa Francesco. Se siamo addolorati ma impotenti diciamolo, se ci commuoviamo ma poi non vogliamo che i nostri soldati si impegnino diciamolo, se un regime amico è dittatoriale e viola i diritti umani diciamolo. Il tempo dei ‘due pesi e due misure’ è passato.
Dobbiamo recuperare la forza della sincerità, dell’onestà. E’ una miniera inesauribile soprattutto per noi educatori, anzi in questo mondo dai molti volti è forse l’unica vera forza di cui disponiamo. Non abbiamo il problema della diplomazia, rischiamo molto poco; da condividere con i giovani abbiamo solo conoscenza e credibilità.
“Non sapevo di essere mussulmana fino a che qualcuno non mi ha detto che lo ero”(Amina,
jeans e giubbotto, 20 anni, Sarajevo, 4 Giugno 1996).
Cosa avrà detto di se Amina dopo i fatti di Parigi e di fronte alle guerre in Medio Oriente? Je suis....?
Non la sento da anni, non so se ora porti il velo o magari sia scappata dalla sua terra. L’identità è una cosa bellissima perché ognuno di noi in ogni momento della sua vita è un qualche cosa di preciso, unico; al tempo stesso ognuno e tutti gioiamo della dignità dell’essere umano.
Eppure l’identità può essere un marchio con cui infamare, sminuire, uno scudo per difendersi. L’identità serve a definire quelli che fanno parte della mia posizione originaria direbbe Rawls, quelli del mio gruppo, nazione, paese, religione, casta, etnia, partito, squadra di calcio, quelli a cui riconosco il mio stesso status. L’identità può essere usata per separarmi dagli altri, per marcare il confine con l’alterità, per segnare ed aumentare la distanza fra me/noi e gli altri: o con me o contro di me, senza mediazioni, una identità prevale e quindi definisce e delimita: dentro o fuori. Questa è l’identità chiusa ed è usata per separare, per dividere per allontanare; i diritti che valgono al suo interno non valgono per chi sta fuori.
Questa è la strategia mediatica dell’ISIS, marcare il terreno, definire chi è dentro e chi sta fuori serve al potere, non ci sono terre di mezzo, sfumature di identità differenti. A questo fine si possono usare etnie, religioni, colori, lingue, sesso, età, tribù, clan. L’identità chiusa ha bisogno di costruire un’immagine dell’altro semplice, il più possibile monocromatica. Amina è uno stereotipo di mussulmano, non una giovane donna che studia, non i suoi jeans, non il suo carattere, non i suoi sogni. Imporre un’immagine che non lasci spazio alle varianti, alle specificità, quasi un archetipo dietro il quale non c’è più l’essere umano.
In Identità e Violenza del 2006 Amartya Sen spiega le complicazioni del concetto di identità; il sottotitolo è terribile: l’illusione del destino; fuori casta sei nato e fuori casta resti, non puoi farci nulla. Sette anni prima Sen aveva scritto Development as freedom, lo preferisco alla traduzione
italiana Sviluppo è libertà, mi ricorda meglio un percorso di liberazione, di affrancamento da tanti tipi di unfreedom.
L’identità è molteplice non siamo mai una cosa sola, come lo sviluppo ha tante facce e poi l’identità evolve, si modifica: con gli anni, con i luoghi in cui vivi, con il lavoro, single o sposato. Soprattutto l’identità si modifica con ciò che impariamo, il nostro mix di identità è il divenire della nostra conoscenza. L’identità è aperta. Ma per evolvere ha bisogno del confronto, della relazionalità, dell’esperienza degli altri.
Essere educatori è un privilegio, una gioia, una responsabilità enorme, a maggior ragione perchè aiutiamo e tutti insieme ci aiutiamo a fare esperienze di alterità. Se invece l’essere insieme serve solo a darci ragione a vicenda, a pensare di saper tutto, ad avere una risposta per ogni cosa, allora il mix di identità si blocca, si cristallizza, si chiude. A quel punto si apre il cammino che può portare all’orrore.
Come educatori che cercano la conoscenza e come persone che stanno con i giovani ed a cui i giovani spesso guardano abbiamo due stupende opportunità.
Una è la franchezza, la sincerità, anche nell’avere visioni differenti, la franchezza non è data per imporre la proprio opinione, la franchezza è la norma che tutela le differenze, non aver timore di dialogare, di confrontare opinioni diverse, è l’agorà o il più recente public discourse.
L’altra opportunità che abbiamo è la possibilità di aiutare i giovani a tenersi lontani dal cammino dell’orrore, solo possibilità perchè non ci riusciremo sempre ed a volte ci sentiremo impotenti e frustrati.
Che Amina possa sempre dire: io sono Amina.