01 aprile 2011 - "La democrazia non è il prerequisito della crescita economica. Al contrario, è la crescita ad essere un prerequisito per la democrazia. E l'unica cosa di cui non ha bisogno sono gli aiuti" ("La Carità che uccide", Dambisa Moyo).
Perché questo flusso di denaro, cominciato venticinque anni fa, non si è rivelato uno strumento decisivo per la lotta alla povertà? Secondo l'economista africana Dambisa Moyo, il problema è intrinseco al concetto di aiuto, un'elemosina che, nella migliore delle ipotesi, costringe l'Africa a una perenne adolescenza economica, rendendola dipendente come da una droga. E nella peggiore, contribuisce a diffondere le pestilenze della corruzione e del peculato, grazie a massicce iniezioni di credito nelle vene di Paesi privi di una governance solida e trasparente, e di un ceto medio capace di potersi reinventare in chiave imprenditoriale. L'alternativa, secondo la Moyo, è chiara: seguire la Cina, che negli ultimi anni ha sviluppato una partnership efficiente con molti Paesi della zona subsahariana.
Ma che percorso di sviluppo ha seguito e sta seguendo l'Africa? Possiamo paragonarlo a quello della Cina o dell'India? In che settori sarebbe opportuno effettuare degli investimenti? E come interpretare i recenti insediamenti "cinesi" nel continente africano? Esiste davvero una finanza che favorisce lo sviluppo? Esistono dei modi di favorire lo sviluppo senza creare un rapporto di dipendenza? Quali sono le risorse nuove da esplorare? È possibile pensare che meccanismi di mercato abbiano un ruolo per lo sviluppo?
Chi oggi, a qualsiasi titolo, si occupa di sviluppo non può non porsi queste domande. Proviamo a capirle, e a farci un'idea sulle risposte possibili. Neanche noi, che vorremmo essere operatori dello sviluppo e costruttori di pace possiamo esimerci dal capire dinamiche e interventi che hanno delle ripercussioni serie sui Paesi in cui operiamo, sulle economie di quei Paesi ma, fondamentalmente, sulle persone.
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