“A Dili la popolazione ha molta paura e cerca rifugio nelle case dei religiosi. Nella nostra scuola professionale di Comoro, in periferia, abbiamo accolto oltre 4 mila sfollati, molte donne e bambini”. A parlare dalla capitale di Timor Est è il padre salesiano Eligio Locatelli, che dal 1964 vive nel martoriato Paese, il più povero del continente asiatico. Nel centro urbano più importante dell’ex colonia indonesiana la situazione non era mai stata così tesa dal 1999, quando l’esercito indonesiano uccise 1400 persone prima e dopo il referendum per l’indipendenza da Giacarta.
Gli ultimi fatti. A partire da marzo, infatti, si è verificata una spaccatura all’interno dell’esercito che ha messo in discussione la già precaria stabilità del Paese. A marzo 600 soldati, un terzo delle forze militari della piccola nazione, hanno scioperato per chiedere migliori condizioni di lavoro e per protestare contro alcuni favoritismi. Dopo circa un mese in cui non si sono presentati in caserma, il governo ha deciso di licenziarli in massa senza rispondere alle loro richieste. La situazione è quindi precipitata il 28 aprile, quando i 600 hanno scatenato disordini a Dili in cui cinque persone sono morte e diversi edifici sono stati distrutti. Almeno 20 mila persone, inoltre, hanno lasciato la città per rifugiarsi dai parenti in campagna.
“La settimana scorsa – continua il religioso - sembrava che le cose si risolvessero, ma lunedì c’è stato un nuovo episodio di violenza a Gleno, 60 chilometri da qui, dove un poliziotto è stato ucciso e altri due sono rimasti feriti”. In quell’occasione le autorità hanno arrestato un centinaio di rivoltosi, dopo che circa mille persone avevano circondato un ufficio governativo.
Il fantasma della guerra civile. “A Dili – dice il padre - adesso regna una calma apparente. Prima, quando sono uscito per fare alcune compere, c’erano poche macchine in giro. Gli uomini hanno ripreso ad andare al lavoro. Gli sfollati, però, continuano a restare da noi perché hanno troppa paura. Di giorno ci sono solo le donne e i bambini, ma di notte arrivano anche gli uomini che rientrano dal lavoro”.
Dopo 25 anni di dominio indonesiano, marchiato da gravissimi abusi contro i civili, la gente di Timor Est continua ad avere il terrore della guerra. “I 600 soldati espulsi dall’esercito – insiste Locatelli – si sono manifestati la settimana scorsa, ma senza risolvere la situazione. Sono ancora in giro, magari nascosti nella macchia, e nessuno sa come si muoveranno nelle prossime ore. A Timor, tuttavia, si è sempre vissuto nella paura e nell’odio. C’è una forte divisione in cui quelli dell’ovest (parte indonesiana dell’isola di Timor) minacciano quelli dell’est e viceversa.”
Democrazia fasulla. Secondo il missionario il governo potrebbe aver fatto male i suoi calcoli: “Probabilmente ha sottovalutato questa ribellione. Non ha capito che aveva contro ben un terzo dell’esercito”. Oggi, però, il primo ministro Mari Alkatiri ha definito le proteste degli ex militari “un tentativo di colpo di stato che vuole paralizzare le istituzioni democratiche”. “Ma nessuno qui – dice il padre in modo accorato - sa cosa vuol dire democrazia. Dal 2002, quando si è ottenuta l’indipendenza, si sono ottenute più libertà, ma lo stato dell’economia è peggiorato.Si pensa di poter costruire un’economia, ma non ci sono le basi per farlo. Non c’è nulla. Non ci sono materie prime, eccetto il petrolio che viene sfruttato solo dal governo senza ridurre la miseria del popolo. Tutto deve essere importato. Nessuno investe, non c’è mercato”.
Per gli sfollati, intanto, sta per iniziare una nuova lunga notte, senza cibo e in condizioni igieniche precarie. Per aiutarli si sono attivati in pochi: l’ambasciata neozelandese che ha messo a disposizione latrine e poche Ong che offrono assistenza medica. Il governo, invece, chiede ai senzatetto di Dili di tornare alle loro abitazioni e ha tolto loro l’assistenza sociale per darla solo agli sfollati fuggiti nelle zone rurali. Padre Localelli si dice preoccupato, mentre guarda migliaia di persone sedute a terra con a fianco poche masserizie e aspetta con loro che succeda qualcosa.
Francesca Lancini
da Peacereporter