Il 2007 in Libano è incominciato sotto il segno dell’ambiguità che, del resto, è uno dei tratti caratteristici del paese. Segnali positivi si sono incrociati con segnali negativi, questi ultimi, purtroppo, provenienti dalla situazione interna, sempre tesa e bloccata, mentre quelli positivi sono giunti dall’esterno, attraverso la Conferenza Parigi III di sostegno economico ad un paese ormai in ginocchio.
Conclusasi la guerra estiva Israele – Hezbollah che fu in realtà una guerra totale contro il Libano, si pensava che i cittadini avessero diritto a un po’ di tranquillità, ma le loro attese andarono presto deluse. Le rivalità politiche interne si esasperarono al punto da creare una vera spaccatura che attraversa trasversalmente tutte le comunità e da paralizzare le istituzioni dello Stato. Ogni polo accusa l’altro di incostituzionalità e, di conseguenza, di illegittimità e illegalità, e finora sono risultate vane tutte le mediazioni per trovare una soluzione ragionevole e soddisfacente per tutti.
Dall’11 novembre, giorno in cui la comunità sciita, la più numerosa del paese, si ritirò dal governo e dal 1° dicembre, giorno in cui l’opposizione, formata anzitutto dai principali raggruppamenti sciiti, Hezbollah e Amal, ma pure dall’importante componente cristiana al seguito del gen. Aoun e altri gruppi minori, occupò pacificamente il centro di Beirut con un sit-in che dura tuttora, si vive con il fiato sospeso. Quando poi, il 23 gennaio, venne decretata l’escalation con il blocco delle principali arterie e l’invito a uno sciopero generale, la situazione sfuggì di mano e si trasformò in vera sommossa, con morti e feriti soprattutto nel campo cristiano. Due giorni dopo, il 25, proprio mentre a Parigi il mondo si chinava sul capezzale del Libano e decideva di venirgli generosamente incontro nei prossimi cinque anni, fu la volta di alcuni quartieri musulmani di Beirut, trasformatisi in vero campo di battaglia tra sunniti e scitti, con altre vittime. Lo spettro di una nuova guerra civile, pur non voluta da nessuno, turbò fortemente tutti i cittadini. La chiusaura obbligatoria per vari giorni di tutte le istituzioni accademiche e scolastiche indicò che si era ormai raggiunto il livello di guardia.
In questa situazione, Don Bosco Technique a Fidar non è un’isola tranquilla in un mare in tempesta, ma come tutte le altre istituzioni educative, è la cassa di risonanza di quanto le accade intorno, tanto più che la popolazione scolastica è eterogenea. Non vi sono allievi sciiti, potenziali sostenitori di Hezbollah, perché scarsamente rappresentati nei dintorni, ma vi sono cristiani di varie confessioni, simpatizzanti per partiti o raggruppamenti politici diversi e un bel gruppo di sunniti provenienti da Tripoli, al Nord, essi pure con il loro colore politico.
Benché conversazioni e tanto più dispute politiche siano vietate, occorre sempre avere occhi ed orecchi all’erta per prevenire improvvise ed incontrollate esplosioni verbali che possono facilmente degenerare. Come dappertutto, anche i giovani libanesi sono facilmente manovrabili e l’ambiente che li circonda non li aiuta certo ad essere sereni.
Ha denunciato questa situazione con vibranti parole il vescovo maronita di Jbeil, mons. Béchara Raï, celebrando proprio a Fidar la festa di Don Bosco, domenica 4 febbraio. Rifacendosi all’esperienza del santo dei giovani, ha detto: “L’amorevolezza esige che si amino i giovani e si aiutino a rialzarsi, aprendo davanti a loro ampi orizzonti. Vediamo invece che i giovani oggi sono usati come merce politica ed economica. Forse che amiamo i giovani quando permettiamo loro di affrontarsi a colpi di pietra per le strade, o quando diamo loro bastoni per picchiare o addirittura armi per uccidere? Don Bosco, ritorna! [...] Non ha futuro un paese senza giovani. Mentre le famiglie fanno sacrifici enormi per educarli e dar loro un buon livello di studio, la classe politica si comporta in modo da spingerli ad emigrare”.
Don Vittorio Pozzo