3 giugno 2013 - Raggiunta una tregua nella Repubblica Democratica del Congo, ci scrive il direttore don Pietro Gavioli per aggiornarci sulla ripresa delle attività nel Centro Don Bosco Ngangi.
“Da una settimana non sentiamo più sparare. La tregua è rispettata. C’è chi dice che l’M23 ne approfitta per rifornirsi in armi. Anche l’esercito congolese consolida le sue posizioni. Speriamo e preghiamo perché non si spari più. La forza africana di intervento dovrebbe essere operativa alla fine di luglio. Non crediamo che tutti i problemi saranno risolti; chiediamo che ci sia un po’ più di tranquillità, la possibilità di viaggiare verso il nord, di ritornare a lavorare in campagna.
Il Centro Don Bosco ha ripreso le attività normali. Per il momento non siamo un centro di accoglienza per le persone sfollate. I responsabili degli enti umanitari hanno detto che il Centro è troppo vicino alla linea del fronte; riunire qui qualche migliaio di profughi sarebbe esporli a un rischio non indifferente. Una ventina di adulti e qualche bambino si erano accampati nella cappella del quartiere: un po’ alla volta stanno partendo per ritornare a casa o nel grande campo profughi di Mugunga, dove l’assistenza è meglio organizzata. Nei giorni in cui si sono accampati accanto al Centro Don Bosco, abbiamo dato loro acqua e cure mediche agli ammalati.
Il popolo degli sfollati, rifugiati, profughi... è oggi la “carne di Cristo”, ha detto Papa Francesco il 24 maggio ai partecipanti alla Sessione Plenaria del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti. “La Chiesa è madre e la sua attenzione materna si manifesta con particolare tenerezza e vicinanza verso chi è costretto a fuggire dal proprio Paese e vive tra sradicamento e integrazione. Questa tensione distrugge le persone. La compassione cristiana - questo “soffrire con”, con-passione - si esprime anzitutto nell’impegno di conoscere gli eventi che spingono a lasciare forzatamente la Patria e, dove è necessario, nel dar voce a chi non riesce a far sentire il grido del dolore e dell’oppressione. In questo voi svolgete un compito importante anche nel rendere sensibili le Comunità cristiane verso tanti fratelli segnati da ferite che marcano la loro esistenza: violenza, soprusi, lontananza dagli affetti familiari, eventi traumatici, fuga da casa, incertezza sul futuro nel campo-profughi. Sono tutti elementi che disumanizzano e devono spingere ogni cristiano e l’intera comunità ad una attenzione concreta. La loro condizione non può lasciare indifferenti. E noi, come Chiesa, ricordiamo che curando le ferite dei rifugiati, degli sfollati e delle vittime dei traffici mettiamo in pratica il comandamento della carità che Gesù ci ha lasciato, quando si è identificato con lo straniero, con chi soffre, con tutte le vittime innocenti di violenze e sfruttamento. Dovremmo rileggere più spesso il capitolo 25 del Vangelo secondo Matteo, dove si parla del giudizio finale (cfr vv. 31-46).Cari amici, non dimenticate la carne di Cristo che è nella carne dei rifugiati: la loro carne è la carne di Cristo”.
Un giornalista radio mi ha intervistato ultimamente per telefono e mi ha chiesto: cosa possiamo fare in Italia per aiutare gli sfollati? Ho risposto: innanzitutto, rompere il silenzio, parlarne, far conoscere la loro situazione, “indignarsi” del silenzio che li accantona fuori dalle persone che “interessano”.
Il poeta greco Elytis, premio Nobel di letteratura nel 1979, diceva: “I poeti non hanno la forza di cambiare il mondo, ma, guardate, possono cambiare le coscienze e dalla coscienza si può passare all’atto”. Lo stesso si può dire dei giornalisti e dei preti".