30 dicembre 2011 - Di segirto la quarta parte del racconto di Luca, nostro volontario in servizio civile in Burundi (per leggere i racconti precedenti clicca su prima parte, seconda parte e terza parte)
Il mio poliziotto esce dalla tenda con un mazzo di passaporti tra le mani. Apre la prima pagina e chiama uno ad uno i nomi. Alcuni, occupati a bere un bicchiere di birra di banana alla frontiera perdono l’attimo giusto e lo riavranno solamente trenta minuti dopo, al prossimo appello. Io sono lì mentre vedo nelle sue mani il mio passaporto dal quale sporge il certificato delle vaccinazioni internazionali. “Luc Catalanoo”. “Oui, c’est moi” rispondo. Me lo porge, rispondo con un murakoze, grazie in lingua kirundi. Mi sorride a bocca aperta e mi augura buon viaggio verso la Tanzania oramai distante pochi minuti.
Lo prendo tra le mani cercando il timbro. Lo trovo piccolo, senza data, e sovrapposto al visto che mi ero fatto rilasciare all’ambasciata tanzaniana a Bujumbura. Sorrido. Lo riposo nella tasca e mi avvio verso il mio bus rosso vivo con un grande ragno nero tatuato sulla fiancata. “Spider” si chiama il mio bus. E sta per fare rotta a Kahama, piccola città al centro ovest della grande Tanzania dove prevediamo fermarci una notte prima di riprendere un nuovo bus mattutino che ci porti a Mwanza. L’incantevole città sulle rive del lago Vittoria porto nevralgico di commercianti indiani, vecchi coloni inglesi, carovanieri provenienti da ogni regione dell’Africa centrale coi loro carichi di mercanzie.
Mi riguardo attorno prima di montare nuovamente sul bus. Riguardo questo spiazzo a due corsie capricciosamente vivo e pieno di uomini e donne che cercano di vendere ogni cosa dal beignet, a un succo artigianale dal colore torbido, al biscotto di importazione araba, al baton de manioc. Un disordine arruffato caratterizzato dalla sporcizia dove i cani sguazzano ansiosi di recuperare ogni tipo di avanzo utile a scacciare i mostri della fame, dove la povertà regna negli abiti delle donne e dei bambini, nelle pance o troppo smilze o troppo gonfie infestate dai batteri. Vedo un ragazzo, avrà la mia età. Lo scorgo sdraiato su una stuoia in vimini bucata ovunque sotto un guard rail a meno di due metri da dove il nostro bus è parcheggiato. Indossa un paio di jeans imbrattati di olio meccanico, sudici, non ha una maglia e i piedi mangiati dai cani. Dorme li, unico lenzuolo le sue braccia avvolte alle sue spalle. Affianco a lui un baracchina di assi di legno storte dove un altro ragazzo cerca di vendermi un accendino e delle sigarette per una cifra inferiore ai due euro. Non fumo, grazie. Mi porge allora un pettine, un rasoio, un pacco di caramelle, una scheda del telefono. No grazie. Anzi, vada per il pacco di caramelle. Le prendo e le offro alla mia famiglia belga-burundese che mi ha raggiunto. Le dividiamo.
Una canzone che apprezzo afferma: “La fortuna è un fatto di geografia.” La geografia, cosi come la vita, è compiere un viaggio da sé a se stessi. Verso l’acquisizione di consapevolezza, verso il rifiuto della fatalità, verso lo spulciare curiosamente i differenti aspetti delle anime umane. La frontiera è la distanza che separa un uomo da un altro. Una distanza tratteggiata non da una sbarra metallica e un uomo in divisa, ma dalle paure, dai pregiudizi, dalle incognite che la paura rende fosche laddove si celano sorgenti di apprendimento. La frontiera è quel limbo dove si accaparrano temerari, sognatori, marinai, indisciplinati, curiosi passeggeri. Terre da cui centinaia di stanchi e indomiti viaggiatori hanno preparato lettere per i propri figli, le proprie mogli, per amici rimasti e per contrabbandieri nuovi. Parole che il mondo dovrebbe registrare in un’enciclopedia apposita, perché chi passa un confine diviene altro da colui che era un metro prima. In quello scatto dell’anima si registrano sensazioni nuove, pensieri vivi, idee avvincenti.
Monto su per quei quattro ripidissimi scalini che mi portano al 16b. Il numero del mio sedile. Attraverso il corridoio ancora più ricco di pollami, scatoloni, sacchi di riso da cinquanta chili, sgabelli improvvisati per accogliere non solamente le quarantasei persone che il bus prevede ufficialmente. Alla fine del viaggio ne conterò circa una sessantina, sdraiate per terra alcune, altre a dividere sedili per due in tre, altre sedute su questi sgabellini con la testa poggiata al sedile del vicino.
Sono bianco, l’unica cosa bianca che si vede tutt’intorno sia dentro che fuori dal mio Spider. Il motore si accende brontolando lasciandosi via via alle spalle cartelli scritti in francese. Doppia curva stretta tra birilli di fortuna. 10 km orari per il nostro mezzo. Fermata di cinque secondi. Getto lo sguardo fuori dal finestrino. Un pannello recita: Karibu Sana” Sotto: Welcome to Tanzania.”
Uno stantuffo annuncia la nuova messa in moto del gigante. Il Burundi è dietro, davanti la Tanzania.
Mi figuro la carta del mondo nella testa. Penso: “Grazie”
Alessio accanto a me dorme, la mia famigliola dietro ha ripreso posto e mette a nanna i più piccoli, il mio calciatore due file avanti è teso, la mia abitante di Lusaka alla mia sinistra accende il suo lettore mp3.
Stropiccio gli occhi, lancio un piccolo sbadiglio, rileggo mentalmente il nome dell’ultima frontiera appena passata. Muyinga.
Sorrido mentre una gallina si lamenta giustamente della sua condizione di passeggera cui nessuno le ha chiesto quale destinazione preferisse.
Passano i bananeti all’ombra della strada, mentre già, nel sonno che arriva, saluto con la mano alzata una nuova sbarra rossa e bianca che si alza.
Luca Catalano
Volontario in Servizio Civile
VIS Burundi