09 settembre 2011 - Ormai da oltre venti anni l’Harambée, parola swahili che significa “incontro, raduno festoso, comunità che si riunisce”, è diventato un appuntamento fisso per i giovani che desiderano scambiarsi il racconto di un mese di vita al servizio dei giovani più bisognosi.
Questo avverrà al Colle Don Bosco, luogo delle avventure della fanciullezza di Giovannino Bosco vissute tra le colline dei Becchi. Partendo proprio da questo luogo vorrei far cogliere uno degli aspetti caratterizzanti l’Harambée.
Chi ha vissuto come Don Bosco la vita contadina, sa che per un ragazzo il ritrovarsi insieme attorno alla mensa o al focolare durante le lunghe serate invernali è uno degli elementi che più fanno gustare la dolcezza del vivere, che più comunicano pace e sicurezza. Giovannino gustò a fondo questa realtà e imparò ad apprezzarla prima di altri valori. La necessità di abbandonare la sua casa a soli 11anni e mezzo per approdare alla cascina Moglia nel lontano febbraio 1827, gli fece infatti sentire quanto era grande il bene di «stare insieme in famiglia».
Anche all’Harambée lo stare insieme tra Salesiani, le Figlie di Maria Ausiliatrice e giovani, formando una grande famiglia, è uno dei valori fondamentali. Come allora per Don Bosco lo stabilire una atmosfera familiare di sintonia e simpatia stando «fisicamente» presente tra i giovani, così oggi lo stare insieme all’Harambée vuol far percepire questa atmosfera ai partecipanti lì radunati, accumunati dalla stessa spinta missionaria, dallo stesso desiderio di far sentire ad ogni giovane la propria dignità di persona.
E ancora. Sempre lì, tra le colline dei Becchi, attorno a Giovanni ruotano alcuni amici delle fattorie vicine che Giovanni con il suo fascino riesce a coinvolgere in tutte le sue imprese. Emerge così in lui il gusto del «fare insieme», del «progettare e realizzare insieme».
L’Harambée, respirando lo stesso spirito di don Bosco nei luoghi della sua fanciullezza, diventa un invito a perseverare nel provare la gioia di «progettare e realizzare insieme» le stesse esperienze, emozioni, attenzioni, fatiche sperimentate nel mese estivo, così da vivere - anche là dove si gioca la ferialità di tutti i giorni - la quotidianità di un impegno per i giovani più svantaggiati e vulnerabili. Potremo così sperimentare la concretezza di quanto dice ancora Don Bosco: «Man mano che facevo sentire loro la dignità dell'uomo... ». Mi pare molto bella questa parola «sentire»: non dà loro la notizia, l’informazione sulla dignità dell'uomo e neppure la spiega, ma la fa «sentire»; cioè Don Bosco, attraverso la pienezza della grazia di cui viveva e che infondeva, faceva sì che questo senso di dignità entrasse dentro coloro che lo avvicinavano, che si sentivano da lui rispettati, curati, amati, quasi fossero l'unica persona a cui doveva badare, e ne aveva tante.
L’“incontro, raduno festoso, comunità che si riunisce” non vuole essere dunque solo un insegnamento e neppure una trasmissione di valori, ma è un rapporto da persona a persona, un rapporto che spinge poi ad una presenza là dove il giovane è più in sofferenza. È nel DNA della pedagogia salesiana lo stare vicino per trasfondere i valori cristiani e far sì che il giovane li ascolti e li riceva dentro di sé anche senza elaborati ragionamenti intellettuali.
Don Francesco Fontana
VicePresidente VIS