16 agosto 2011 - In questi giorni rileggevo uno scritto di Don Bosco nel quale racconta del dialogo con il primo ragazzo immigrato. E’ da questo brano che parte la mia riflessione in occasione dell’anniversario della nascita del nostro fondatore.
In quel racconto c'è la parola «subito». Sembra una parola come tante altre, invece diventa la parola d'ordine di Don Bosco, tirato dentro l'azione dall'urgenza, dall'impossibilità di aspettare. Nell'incertezza della prima rivoluzione industriale, nell'impossibilità di trovare belli e fatti piani e programmi di azione, don Bosco e i primi Salesiani gettano tutte le loro energie per fare «subito» qualcosa per i ragazzi in difficoltà. Sono le necessità urgenti dei giovani che dettano loro i programmi di azione.
Ci troviamo a vivere questo compleanno di Don Bosco in situazioni non molto differenti da quelle vissute da lui: emergenza educativa, crisi economica globale, il fenomeno complesso dell’immigrazione.
La risposta di Don Bosco alla realtà difficile del suo tempo fu la concretezza.
Se Don Bosco avesse aspettato tempi migliori, salesiani migliori, laici in responsabilità migliori, giovani migliori, sarebbe morto aspettando.
Non aspettò il 100 per realizzare il 1000. Cominciò con l'1. A volte, dopo fallimenti piccoli e grandi, ricominciò testardo con ancora meno. Non disse come il geniale e buonissimo Don Cocchi, figlio di una serva morta di tubercolosi e di fame a 27 anni, che si era messo a radunare giovani donne e uomini poverissi mi come sua madre: «Io ho fatto delle opere buone, ma i torinesi mi giudicano un prete malizioso. E allora faccio valigie e parto missionario». Don Bosco ricominciò con il “subito”, si conquistò l'ambiente spanna a spanna e le persone una per una. Quando una maldicenza gli portò via tutti i primi benefattori, quando nel 1848 alcuni preti, patrioti fanatici, gli portarono via tutti i giovani più grandi, quando due preti suoi cari amici, «a fin di bene», cercarono di farlo portare addirittura all’ospedale psichiatrico, non piantò tutto. Ricostruì ad uno ad uno con calma i legami con i benefattori , continuò le attività del suo Oratorio con i ragazzi più piccoli. Non mancarono anche scherzi e risate con i suoi due amici preti che lo accompagnarono nella sua “avventura”. Continuò e non si arrese mai.
«Se incontri uno che muore di fame, invece di dargli un pesce insegnagli a pescare», è stato detto giustamente. Ma è anche vero il rovescio della frase: «Se incontri uno che muore di fame, dagli un pesce, perché abbia il tempo di imparare a pescare». Va bene, e non basta il «subito», l'intervento immediato, ma non basta nemmeno «preparare un futuro diverso», perché intanto i poveri muoiono di miseria.
La nostra esperienza in tanti paesi nel mondo dove i nostri volontari lavorano insieme ai salesiani a fianco delle popolazioni in difficoltà ci insegna che i ragazzi hanno bisogno subito di una scuola e di un lavoro che aprano loro un avvenire più sicuro; hanno bisogno subito di poter essere ragazzi, cioè di scatenare la loro voglia di correre e saltare in spazi verdi, senza intristire sui marciapiedi; hanno bisogno subito di incontrarsi con Dio, per scoprire e realizzare la loro dignità. Pane, catechismo, istruzione professionale, mestiere protetto da un buon contratto di lavoro diventano quindi le «cose» che Don Bosco e i salesiani danno con urgenza ai giovani perchè una vita si può orientare guardando indietro, ma bisogna viverla guardando avanti.
don Francesco Fontana
Vice Presidente VIS