5 settembre 2012 - Abbiamo ricevuto questa lettera da Ilaria Siggia dell'UNHCR Angola che ripercorre la storia di Amadou Tidiany Watarra, un giovane fuggito dalla Costa D'Avorio e arrivato in Angola. Una storia dolorosa, difficile, complessa che grazie all'aiuto del VIS in Angola ha avuto un epilogo positivo.
Credo fosse Ottobre del 2010 quando, uscendo dalla sala riunioni del dipartimento “Controle dos refugiados e requerentes de asilo” dell’Ufficio Immigrazione, branca del ministero dell’interno angolano, mi imbattei in quel giovane richiedente di asilo denutrito, sporco e sanguinate che, arrivando da chissà dove, si era abbandonato in stato di incoscienza ai piedi del palazzo.
Pochi minuti dopo, mi ritrovai concentrata, assieme alla Direttrice dello stesso dipartimento e ai suoi sottoposti, nell’intento di rianimarlo e capire cosa potesse essere accaduto a quel giovane tanto da giustificare quello stato di malessere e abbandono.
Fu quel giorno che conobbi Amadou Tidiany Watarra, un ragazzo di 20 anni che ne dimostra 14, fuggito dal suo paese di origine, la Costa d’Avorio, nel febbraio 2010 a seguito delle violenze scatenate dalle ultime elezioni presidenziali. In un contesto di estrema sofferenza, non sempre è facile carpire l’intelligenza della gente giacchè sono altri gli elementi di una persona che tendono ad emergere. Eppure di Watarra (cosi voleva esser chiamato), ciò che davvero mai potrò dimenticare è la velocità di pensiero, l’estrema furbizia e quella saggezza del tutto atipica per la sua età nonchè sbalorditiva rispetto alla realtà che si trovò ad affrontare.
A Buake’, Costa d’Avorio, riuscì a scampare alla morte per puro caso: si trovava sull’albero di mango del suo giardino il giorno in cui entrarono i militari e uccisero tutta la sua famiglia, genitori, nonni, zii e la sua amata sorellina di 4 anni. La notte stessa, in preda alla disperazione, fuggì come un pazzo senza meta, senza cammino, spinto solo dalla paura che quella gente tornasse a cercarlo. Poi pensò che suo padre gli aveva sempre parlato dell’Angola, un paese accogliente e in pace, dove aveva lavorato per anni nel settore delle costruzioni. Lì la gente non prega nelle moschee ma lascia liberi di praticare il Ramadan a chiunque lo voglia.
Cosi pensò e si diresse in Angola.
Da quel momento iniziò il suo lungo viaggio a piedi, senza documenti, senza soldi, senza nessun contatto. Attraversò tutti i paesi dell’Africa Occidentale, dove sopravvisse grazie all’aiuto del confratelli mussulmani che gli diedero ospitalità all’interno delle moschee. L’immagine della mattanza familiare non lo abbandonava neppure per un istante al punto che per notti non riuscì a dormire. La mancanza prolungata di sonno, mista all’ansia, alla paura e ai trauma subiti, fu la causa principale del malessere psicofisico che lo accompagnò lungo un viaggio in cui per giorni non mangiò e non bevve.
Arrivato in Repubblica Democratica del Congo (RDC), si barcamenò per raccogliere informazioni su come varcare la frontiera e arrivare in Angola. E fu in RDC che una notte iniziò la sua dipendenza dall’alcool. Incapace di prender sonno, su consiglio di un anziano, bevve una bottiglia intera di una bevanda alcolica i cui effetti, a detta del signore, lo avrebbero aiutato a dormire.
Watarra racconta che nella tradizione orale africana, il consiglio di un vecchio non è in alcun modo sindacabile giacchè emana lo stesso livello di conoscenza che un europeo riceverebbe dallo studio di una intera biblioteca universitaria. Pertanto, bevve l’intera bottiglia e dormì per un numero di ore che neppure lui mai riuscì a riportare a noi, ma che di certo si avvicinava alla trentina.
Recuperate le forze, proseguì in direzione sud, dove si unì ad un gruppo di migranti congolesi che durante la notte avrebbero attraversato la frontiera sud est e sarebbero entrati in Lunda Norte, provincia che riceve la maggioranza di immigrati provenienti dai paesi dalla regione dei Grandi Laghi.
Quella notte fu picchiato e violentato da un gruppo di persone di cui ricorda poco. Rimase ferito e sanguinate per tutta la notte ma quella dopo riuscì a lasciare la RDC e finalmente entrare in Angola.
Sapeva che doveva richiedere asilo, perchè sapeva di essere un rifugiato.
Gli dissero che sarebbe dovuto andare a Luanda, la capitale, e rivolgersi all’Ufficio Immigrazione. Ricominciò a camminare, sempre più affaticato, denutrito e ormai completamente dipendente dall’alcool. Era difatti l’alcool l’unica sostanza che riusciva a rilassarlo, che sopprimeva ogni pensiero, regalandogli qualche ora di sonno per proseguire il suo cammino.
Non ricordo quanti mesi passarono prima di arrivare a Luanda. Una volta me lo raccontò e di certo lo scrisse nel suo quasi-diario che riempì durante le sue giornate trascorse nella capitale. Peccato che, tra una bisboccia e un’altra, perso tra la gente e per strada, quel diario sia andato perduto. Era scritto in francese, la sua lingua madre, ma avrebbe potuto scriverlo in qualsiasi altra lignua, visto che ne conosceva almeno 8, incluso l’arabo.
A Luanda pertanto ci incontrammo, il giorno in cui arrivò all’Ufficio Migrazione per chiedere asilo, prima di perdere coscienza.
Fu riconosciuto quasi immediatamente come rifugiato secondo la legge angolana.
Ormai poteva dirsi al sicuro da guerra e abusi ma evidentemente non ancora al sicuro da se stesso.
Malgrado tutti gli sforzi che assieme ai miei colleghi di UNHCR facemmo affinchè venisse integrato nel Paese di asilo, Watarra era incapace di cogliere le possibilità offerte perché dilaniato dalla dipendenza all’alcool.
Divenne presto chiaro come non fossero le dignitose condizioni materiali a dargli la forza per ricominciare a vivere pienamente in modo da ricostruire la sua vita lontano dalla Costa d’Avorio. Non so quanti fogli potrei riempire di racconti riguardanti i tentativi, tutti fallimentari, che sono stati fatti per aiutarlo. Dopo lievi progressi, Watarra ripiombava costantemente nell’alcolismo e si trasformava in un ragazzo di strada incapace di controllarsi, come tanti ce ne sono in Angola. La differenza è che per me, come funzionaria di un’organizzazione ONU che si occupa di rifugiati, e come persona che col tempo è andata legandosi affettivamente a questo caso umano, non fu possibile gettare la spugna e abbandonarlo al suo destino.
Non fu sufficiente sensibilizzare il Governo nella ricerca di un qualche istituto per il recupero di tossicodipendenti o per persone affette da forti traumi. L’Angola, nel suo intenso processo di ricostruzione, non si è ancora dotata a sufficenza di tali strumenti, specie nei casi in cui a beneficiarne sia uno straniero che, benchè si tratti di rifugiato, rimane pur sempre uno straniero. D’altro canto, la sua comunità rifugiata lo mise all’angolo nel momento in cui venne rilevato dal suo leader che il problema era l’alcolismo, vizio non tollerato secondo i precetti mussulmani. Pertanto, Watarra si trovò ben presto solo con se stesso e abbandonato al suo destino che, con ogni probabilità, lo avrebbe portato a morire, chissà in quale angolo della città.
La buona e proficua relazione di partnership con il VIS ha cambiato le sorti di questo rifugiato ed è per questo che UNHCR Angola è felice di poter condividere con il personale tutto dell’ONG il gioioso epilogo di questa storia.
Il VIS era difatti in contatto con la Fazenda “Esperanca”, gestita da un’organizzazione cattolica brasiliana, che opera in molti paesi nel recupero di tossicodipendenti e alcolisti. In uno dei nostri incontri di lavoro, sfogai a Marco, Fulvia e Fabio le mie preoccupazioni riguardanti questo ragazzo che, malgrado fosse stato inserito in uno dei corsi di formazione professionale, aveva desistito a causa delle sue precarie condizioni fisiche. Aveva difatti avuto una delle sue ricorrenti crisi ed era finito nuovamente in ospedale.
Fu allora che i cari colleghi del VIS ci fornirono il contatto della fazenda, che poi si rivelò una vera e propria soluzione per il giovane rifugiato.
Contattare i volontari della fazenda fu facile, come anche la possibilità di avere un incontro per discutere delle concrete possibilità di inserimento del giovare Watarra tra i loro assistiti. Fu in quell’occasione che il ragazzo dimostrò la sua volontà di vivere e di farcela, accettando immediatamente la proposta di intraprendere il percorso di recupero offerto dalla fazenda.
Tutto sembrò magicamente facile, malgrado si trattasse di un ragazzo orfano, straniero e mussulmano. Nessun pregiudizio da parte di Nilson ed Eduardo, due persone meravigliose e ricettive, che accettarono senza problema la nostra richiesta. Nel giro di qualche settimana Watarra si trasferì alla fazenda di Huambo.
E’ questo il momento di svolta nella sua storia. Nella fazenda, Watarra si prende cura dell’orto, prega e si confronta con gli altri. Di tanto in tanto mi chiama e dice di pregare per me e per tutta la gente che lo ha aiutato. Ha chiesto ripetutamente perdono per ver deluso chi in passato aveva voluto aiutarlo.
A noi tutti sembra di aver vissuto un incubo che improvvisamente si è trasformato in un film drammatico ma dal lieto fine.
Di questo, vogliamo ringraziare di cuore tutti i colleghi del VIS e la sua Direzione.
Anche perchè il lieto fine non è ancora finito:
Prima della sua partenza per Huambo, UNHCR aveva selezionato Watarra tra i casi ammissibili di beneficiare di « resettlement », ossia della possibilità per lui di essere reinstallato in un paese terzo, esperiti tutti i tentativi di integrare il ragazzo localmente e impossibilitati di immaginare un suo ritorno volontario nel paese di origine dal quale era fuggito.
Il suo caso è stato presentato al Canada ed è stato accettato.
Entro fine anno, Amadou Tidiany Watarra partirà per il Canada, di cui diventerà residente nel giro di pochi anni.
E che Dio gliela mandi buona.
Grazie di cuore.
Ilaria Siggia
UNHCR Angola