27 novembre 2019 – Irene Paviotti è partita per il Ghana per due mesi, grazie al Charity Work Program dell’Università Cattolica di Milano, dove studia Economia dello Sviluppo. Nelle righe che seguono il racconto della sua esperienza:
“Fare un’esperienza in un Paese in via di sviluppo era inevitabile nel percorso di studi che ho scelto – per verificare che le nozioni apprese dai libri avessero un riscontro effettivo nella realtà e che una carriera nell’ambito dello sviluppo fosse davvero uno scenario possibile per me.
Partire perciò per il Ghana per due mesi non sembrava un big deal: era una tappa quasi scontata durante l’università, sembrava solo un periodo all’estero come altri, ed ero certa che tutti quei libri, articoli, paper e dibattiti studiati negli anni mi avessero preparata a ciò che mi aspettava. Partivo conoscendo solo qualche coordinata generale del Ghana, ma di sicuro tutto quello studio si sarebbe rivelato utile ad un certo punto, giusto?
La risposta è ‘sì, ma…’. Viaggiare è sempre fonte di scoperte e questa esperienza non è stata da meno: la sorpresa di fronte a ciò che vedevo è stata una costante di questi due mesi, in senso talvolta negativo ma più spesso in senso positivo, quando la realtà ha superato le aspettative o semplicemente si è rivelata molto diversa dall’idea astratta che ne avessi. La scoperta principale di questo viaggio è stata quindi rendersi conto che nonostante cerchi di non guardare il mondo con schemi interpretativi rigidi, comunque ero partita facendo delle conclusioni affrettate sul luogo in cui sarei arrivata, che sono state poi velocemente smentite.
Una delle cose che si imparano subito studiando economia dello sviluppo è che la povertà non si misura solamente guardando al reddito, bensì considerando molteplici fattori; in più nei Paesi in via di sviluppo le disuguaglianze socioeconomiche sono enormi e crescenti. Tuttavia, la notizia che il Ghana di recente si fosse sganciato dal sostegno del Fondo Monetario Internazionale, e il fatto che comunque fosse una zona relativamente pacifica del continente africano, mi faceva pensare che tutto sommato le cose andassero, genericamente, ‘bene’.
Passando per i quartieri di Accra e le zone rurali attorno a Sunyani mi sono rapidamente ricreduta. Forse il tasso di povertà in Ghana non è così elevato come in Paesi distrutti da guerra e privi di risorse. Se prendiamo come simbolo di indigenza le capanne di paglia e fango, che tanti pensano siano la norma nel continente africano, non le troveranno in Ghana. Anche relativizzando, però, salta all’occhio la differenza immediata tra alcune zone del Ghana e i Paesi occidentali: il primo impatto all’arrivo è stato un leggero senso di spaesamento e perplessità. Entrando poi in contatto con le persone che vivono lì, conoscendone un po’ le storie di vita e osservandone la realtà quotidiana, si può pensare che una larga percentuale della popolazione potrebbe e dovrebbe avere molte più opportunità per condurre un’esistenza dignitosa in tutte le sue dimensioni. A dimostrazione del fatto che non sempre la buona performance economica di un Paese si traduce in uguale benessere per tutti.
Per quanto la vita possa essere difficile per molti, però, sembra che nessuno rimanga con le mani in mano, ma tutti si danno da fare individualmente e in gruppo per cercare di tirare fuori il meglio anche da situazioni poco ideali. Forse i mille negozietti ai lati delle strade non garantiscono una fonte di reddito costante ai loro proprietari, ma questo non impedisce di mettersi all’opera per cercare di guadagnare qualcosa. Il senso di comunità è stato sorprendente: l’accoglienza calorosa da parte dello staff VIS, della comunità salesiana e del microcosmo creatosi attorno al progetto è stata rincuorante e sinceramente inaspettata, considerando la brevità della mia permanenza. Sarà un po’ strano non sentirsi dire ‘come stai?’ e ‘benvenuta!’ da più o meno ogni persona incontri per strada, conosciuta o sconosciuta che sia.
Due mesi sono un periodo troppo breve per fare conclusioni sul riscontro empirico di ciò che studio e sul futuro a cui questi studi mi preparano. Mi hanno però permesso di gettare uno sguardo su un continente in cui non avevo mai messo piede prima, scoprendo modi di fare e vivere che lasciano spesso perplessi, ma la cui complessità non ha fatto altro che invogliarmi a tornare, approfondire, lasciarmi di nuovo spaesare e fare nuove scoperte. Se alla domanda ‘tornerai in Ghana?’ all’inizio rispondevo ‘chi lo sa’, adesso dico ‘spero proprio di sì!’”.